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SDENG: Il suono delle scelte sbagliate e del nuovo capitolo delle Altre di B

Altre di B, la band indie – rock made in Bolo, sono Giacomo, Andrea, Giovanni e Alberto e sono tornati il 14 maggio su tutte le piattaforme digitali con un nuovo progetto, un album concettualmente legato ad una fase nuova della loro storia personale: SDENG.

La campagna è la meta prediletta per il loro quarto trasloco, a cui corrisponde come da tradizione un album, il quarto, che ci regala dieci tracce, anticipate dall’uscita di coppie di singoli, a loro volta associate a coppie di artwork sui muri della loro città, realizzati dallo street artist Mannaggia. La scrittura non ruota più intorno ad un tema unico, come nei precedenti progetti Sport e Miranda!, ma il risultato è comunque organico e coerente, ma mai privo della spontaneità tipica del loro sound, che li ha portati alla conquista di importanti palchi internazionali (Primavera Sound, SXSW, Sziget, Europavox).

In questo quarto capitolo ci sono ritmi più rilassati, in una miscela ben riuscita stili post-punk e jangle pop. Stavolta il loro suono è quello delle scelte sbagliate, degli “scontri della vita”, nella quotidianità come nei rapporti interpersonali, indagati perfettamente in brani come Mommy e Green Tea Tiramisù, personalissimo pezzo dedicato all’ex tastierista della band.

Abbiamo chiacchierato un po’ con loro ed ecco cosa ci hanno raccontato!

Ciao ragazzi! SDENG è il vostro quarto album, ma immagino che ogni volta sia un po’ la prima volta. Come state?

Ciao Futura 1993! Noi stiamo bene, anche se come tutti veniamo da un anno e mezzo gravoso, nel quale abbiamo dovuto rimandare l’uscita di un disco pronto da tempo, vederci attraverso la webcam del computer e rinunciare all’attività dal vivo. Ciononostante è stata una gestazione divertente e una produzione d’altri tempi, una nuova prima volta, come fosse il primo disco. SDENG è un album registrato come negli anni Sessanta, in presa diretta e con post-produzione analogica e nessun artificio: un orecchio attento noterà stonature, difetti, spigoli e qualche errore. È a tutti gli effetti un manufatto.

SDENG è stato realizzato in un granaio e in questo periodo storico si parla spesso di un ritorno generale alla vita semplice, rurale – una sorta di deurbanizzazione. Perché avete scelto la campagna e cos’ha rappresentato per voi e per questo progetto?

Andrea ha in affitto un granaio, utilizzato come deposito di chincaglieria, sacchi di grano, mobili in disuso e vecchia attrezzatura agricola. Così dopo esser stati sfrattati dal garage che utilizzavamo per le prove abbiamo deciso di ottenere il massimo rendimento da un granaio, che non è propriamente un luogo adatto alla musica, ma riadattandolo un poco è diventato un ambiente straordinario. Dopotutto sei circondato dal silenzio, dai cani, gatti, pavoni e volpi. Quando hai tanto spazio attorno le cose diventano più semplici: è né più né meno il concetto del foglio bianco da scarabocchiare. Non ci siamo imposti limiti di tempo, limiti di scrittura e dettami discografici. Per noi è un lavoro schietto e diretto.

SDENG è un rumore che avete rappresentato graficamente con un pallone che non entra in canestro, ma risuona sul ferro. A me, d’impatto, ha ricordato un colpo forte, preso di testa, di quelli che ti stendono. Come mai questo titolo?

È il suono secco e immediato di tutti gli scontri della vita: è un incidente, è un battibecco, è un canestro sbagliato da un metro di distanza, è l’ingiustizia e la prevaricazione. Ma è anche il rumore della rivalsa e dello sfogo, dell’innamoramento, della capacità di dire no e della riconquista dei propri spazi. È stata una scelta molto semplice: passeggiando per Bologna abbiamo visto quel disegno su un muro (è dello street artist e sassofonista Mannaggia, che abbiamo successivamente contattato per il resto delle grafiche) ed è stato un rumoroso colpo di fulmine. Era il tassello mancante allo spirito con cui abbiamo affrontato questo lavoro.

L’unica featuring del disco è con i regaz dello Stato Sociale, nello specifico Checco e in un brano in italiano. Parlatecene.

SDENG ha visto la partecipazione di diversi musicisti che ci piacciono (Luca Lovisetto di Baseball Gregg, Ilaria Ciampolini di Pop-X e Immanuel Casto, Dario Nipoti e Lorenzo Musca dei Blaus). Avevamo questo brano samba che volevamo assolutamente cantare in portoghese e avevamo pensato alla voce di Asia Morabito (Sleap-e), ma con lo scoppio del lockdown abbiamo dovuto rimandare i lavori. La scorsa estate, dato che Giacomo stava lavorando al disco di Checco (quello che è andato a comporre l’ultimo lavoro de Lo Stato Sociale) abbiamo pensato che per praticità potevamo avvalerci della sua voce ed di accantonare il portoghese, del quale avevamo sottovalutato la musicalità. Siamo comunque in debito con Asia e ci rifaremo.

L’arte e il linguaggio dei muri. Qual è il vostro legame con l’arte figurativa, che vi ha portato a voler rappresentare le dieci tracce del disco sui muri della vostra città?

I muri di Bologna sono da sempre un pot-pourri di creatività autentica e, al di là di quello che uno pensi in materia di arte di strada e vandalismo, è un tipo di espressività estremamente relazionato col tempo in cui si vive. E i disegni sono materia viva, non pelle morta. A Bologna si parla di droga, anticlericalismo militante, assassins de la police, musica, espressioni lapalissiane ed emancipazione. Tutto però ha inizio anni fa a San Francisco, dove vediamo l’immagine di una nuvola gigante con al centro le parole It’s a cloudy day in San Francisco. Lampante, potente, bello. È il primo di tanti SDENG. Di arte di strada ne parlato anche qua.

Quanto ha inciso su di voi, come artisti e come ascoltatori di musica, e su quest’album l’assenza dell’assembramento sotto palco?

In tutta onestà non ha spostato granché. Certo, è cambiata l’interazione palco-pubblico, ma è una lunga stagione delle vite di tutti destinata a cambiare e tornare ai vecchi canoni. E, detta francamente, i concerti con le sedie ci sono sempre stati. Ahimè.

Il vostro concerto dal balcone in Bolognina quest’anno ha avuto un sapore diverso, quello del tempo storico che stiamo vivendo. Come musicisti, avete avuto modo di entrare in contatto con realtà musicali fuori dall’Italia: secondo voi esiste nel nostro Paese un problema, istituzionale e non, con il settore artistico?

Il 6 gennaio eravamo a un passo dall’eseguire il solito concerto della Befana, che suoniamo dal balcone di casa di Giacomo dal 2011: ma, viste le circostanze, ci sembrava una mancanza di rispetto. Abbiamo deciso di fare la cosa più sensata, ovvero di salire sul balcone con gli strumenti e di non suonare. Questa lunga stasi è stata (è da lungo tempo) la condizione dell’arte per oltre un anno, arte che è stata messa alla porta dalle istituzioni, quasi criminalizzata, depennata dalle agende governative, dimenticata e ridicolizzata. Tutto questo mentre il resto della macchina blaterava di riaperture a fronte di migliaia di contagi giornalieri e dei morti nelle terapie intensive. Il problema esiste ed è legato al fatto che, sia chiaro generalizzando, questo non è considerato un lavoro a meno che non si riempiano gli stadi, o non si vada in televisione. Esistono lavori di serie A e lavori di serie B, questo è il problema.

 Il posto più bello dove vi ha portato la vostra musica e il palco sui cui ancora non siete salite, ma che sognate di calpestare?

La prima volta in America (Shrine di New York City) è il posto più bello dove ci ha portati la musica. Il mio sogno (Giacomo) è il tendone BBC del festival di Glastonbury.

Di Elisabetta Picariello

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