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Indie Pop

Quella crepa dalla quale filtra la luce: è tornata Beatrice Pucci

Chi segue i miei resoconti mensili, sa bene che per Beatrice Pucci ho un debole atavico, che affonda le radici nel primo ascolto che feci di “Figli”, il suo singolo d’esordio pubblicato a maggio scorso e seguito, a distanza di qualche settimana, dalla pubblicazione di “Le colline dell’argento“, il suo disco di debutto pubblicato (e realizzato, cosa da sottolineare) da totale indipendente: un lavoro denso, pieno di spunti di riflessione musicale ed esistenziale, fatto di piccole cose che s’incastrano alla perfezione nella resa di un album che faceva del “non finito”, del “grezzo adamantino” il proprio punto di rifrazione e forza.

Ovvio, dunque, che oggi, all’uscita di “Nero”, il suo primo singolo post-disco, il cuore mi abbia sussultato in petto con la veemenza di chi sta rintanato da un po’ nell’ombra della gabbia toracica, in attesa di un refolo di luce capace di restituire nuova forza ed emozione al muscolo cardiaco; e appena ho premuto “play”, ogni nuvola si è trasformata in burrasca, sciogliendo in pianto quella coltre grigia che, da qualche tempo a questa parte, affossa le esistenze di tutti. Abbiamo bisogno del buio, per brillare: e questo, Beatrice, sembra volerlo dire con tutta la forza che ha, e allo stesso tempo con la serena accettazione di chi ha svelato un arcano, e sa che il mistero non è altro che un gioco d’ombre, in attesa di essere illuminato.

“Nero” ha la potenza catartica di qualcosa che proviene da un altrove, da uno spazio diverso rispetto a quello della quotidianità: una sorta di crepa, di fessura dalla quale – come direbbe Leonard Cohen – la luce filtra e illumina le fattezze di un giardino che è segreto solo per chi non sa cercare davvero; e allora, seguendo le linee arboree di chitarre che dettano il passo del cammino, si finisce col perdersi e volersi perdere tra gli odori di muschio e selva di quell’intricato bosco di emozioni che la vita sa offrire, a chi supera la paura del buio.

Ecco, quella paura, che oggi pare essere la grande fobia di questo nostro tempo sempre impegnato a brillare per non affrontare il timore dell’oscurità, è il farmaco che Beatrice sembra aver individuato per auto-debellare la propria infelicità: accettare che il buio altro non sia che il confine della luce, e viceversa, e che ogni gioia necessita del dolore per capire l’estensione di sé stessa, per sapere di esistere e di essere vera.

Un bel lavoro, che fa innamorare ancora di più chi già da tempo ha giurato amore alla musica di Beatrice.