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Musica Da Bere 2021, la finale allo Spazio Polaresco

Settembre per la musica ha un solo significato: la fine dei festival. Noi di Futura 1993 ci siamo dati in prestito alla grande Bergamo e alla sua Musica Da Bere, music contest all’interno dello Spazio Polaresco.

Il contest, che ha già visto i primi partecipanti nella serata di sabato 11, procede in una direzione molto interessante. La serata si apre con Diorama, che salta sul palco insieme alla sua band, porgendo al pubblico tutta la propria arte, che non si limita di certo ai suoi brani. Scalda la voce con il pezzo, per la prima volta live, Due Metri dal Suolo, susseguita dal primo brano del suo album d’esordio uscito lo scorso 15 aprile, Fammi Fammi. Non è abbastanza per lui, chiede di più, e passando sul pezzo Unpodivì, coinvolge il pubblico in un ballo mezzo scatenato (da seduti!) ed un mashup improvvisato con Si, Ah (di Frah Quintale, n.d.r.). Non scende dal palco senza far conoscere Souvenir, il suo grido alla leggerezza, all’amore spudorato per l’arte e per chi si trova sottopalco. Diorama scende accompagnato da una bottiglia di vino, lasciando il posto al secondo artista in gara, Toru.

Si entra così in una mezz’ora psichedelica, dove l’artista propone un remix di alcuni dei propri brani, tra cui Soli e Rimini, ipnotizzando il pubblico, ad un ascolto attento e sfoggiando una capacità magistrale nel fluire da uno strumento all’altro, senza incertezza.

Prima dell’esibizione acustica tanto attesa dei Ministri, mancano all’appello la band dellacasa maldive: non tardano nella loro esibizione, che fin da subito fa risaltare il loro progetto ben curato. Si esibiscono subito con il loro ultimo singolo Voglio Solo Stare all’Aria Aperta. Dopo una breve sessione di ringraziamenti agli organizzatori dell’evento, il frontman Riccardo decide di presentare in live tre brani inediti, partendo da Pedalini

Chiuso il live contest e superati gli applausi, i presentatori consegnano la Targa Musica da Bere 2021 ai Ministri, che con tutta la loro gratitudine salgono sul palco, completi di giacche bianche coordinate, voce per Divi, chitarra per Federico e cajon per Michele, si inzia con Peggio di Niente. Si coglie la nostalgia del pubblico delle chitarre elettriche e della batteria, smontata subito dall’atmosfera che si crea appena Federico strimpella le prime note di Idioti. L’intermezzo del live si distribuisce su tre brani, I Nostri Uomini Ti VedonoI Tuoi Weekend Mi Distruggono, e dopo un accenno di Federico alla situazione del mondo dello spettacolo post pandemia, si accendono i suoni per la Ballata del Lavoro Interinale.

Riprende parola Divi, annunciando gli ultimi due brani della serata, e seguito da un urlo di dispiacere, lascia la parola a Federico. Racconta di questo brano registrato nella Berlino del 2015, riportato in Italia e mixato, forse il loro brano più incazzato, pieno di rabbia e chitarre: Sabotaggi. Alcuni non riescono a trattenersi, si alzano e ballano, hanno voglia di godersi questo pezzo, come si faceva prima, come sono sempre stati capaci di farlo. All’apparenza troppo breve, tutti vorrebbero di più, ed è qui che Divi grida il titolo che buona parte del pubblico stava aspettando, Comunque. Si fatica a respirare, il fiato è tutto per il ritornello.

Dopo la malinconica discesa dal palco dei Ministri, è l’ora della premiazione, introdotta con un breve discorso del direttore della giuria. Non mancano i ringraziamenti a tutti gli organizzatori e i partner dell’evento. Il primo premio viene assegnato ad un artista della serata precedente, Noé, mentre il secondo a dellacasa maldive.

Live Report di Elvira Cerri

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“ACIDA” è il nuovo brano di Mancha, Nicol e Mr. Monkey: La recensione illustrata

Con Acida siamo perfettamente sulla cresta dell’onda che deve seguire un singolo per entrarti in testa e non uscirne più. Mancha eNicol complice la produzione di Mr. Monkey hanno colto nel segno e sono riusciti a farci ballare in vista dell’estate: bastano i primi secondi del brano per accorgersene.

 «Il pezzo nasce dallidea di far risuonare una parola forte e diretta. Latteggiamento Acido che ti fa odiare una persona ma che allo stesso tempo ti fa provare quel sentimento di dipendenza e bisogno che ti fa rimanere lì attaccato.»

Così ci descrive il suo brano Mancha, un mix di trap e hip-hop omogeneo e fluido in cui il concetto di “acida” si personifica. Più va avanti il brano, più viene spontaneo  ricercare nelle nostre vite la persona che ci ricorda le sensazioni ambivalenti suscitate dal singolo.

Pensando al termine “acida” viene subito in mente un classico della musica indipendente italiana, una vera e propria hit, quella dei Prozac+, che ha segnato la discografia nostrana. Eppure questo è ancora oggi un aggettivo di cui si è cantato poco: di solito vengono descritte nelle canzoni d’amore prevalentemente le persone che ci hanno fatto del male, chi ha ferito i nostri sentimenti, chi è sparito o quelli a cui invece importava troppo poco di noi. Al contrario, l’ “Acida” di Mancha e Nicol diventa la protagonista del pezzo non per quello fa, infatti non troviamo i classici riferimenti alla sua vita e al  suo quotidiano, ma per le condizioni in cui lascia il partner: sciolto, straziato, abbandonato, irrisolto.

Sciogliersi per amore come la ruggine che si scioglie nell’acido, questa è la metafora usata da Mancha che lascia intendere come ci sia veramente della sofferenza per la fine di questa storia, per l’abbandono da parte di una persona apparentemente tossica, con cui però si è creato un legame di dipendenza, un punto fisso da venerare.

Possiamo definirlo un brano che coglie nuove visioni della gen Z perchè aggiunge nuovi valori alla narrativa del cantato, dove non si descrive  un corpo solo per le forme o per dei tratti distintivi estetici, ma per la sua parte più cruda, per i segni delle emozioni lascia.

Non ci aspettavamo un pezzo del genere da due artisti che vivono su pianeti diversi come Nicol e Mancha e che qui trovano un loro punto di incontro inaspettato.

Dopo i singoli di esordio Crimine e Solo Quando Voglio, Mancha ci mostra il volto di un artista che, nonostante la giovane età, ha le idee molto chiare. Il featuring insieme a Nicol con la sua vocalità spaziale e la produzione di Mr Monkey aggiungono un valore unico al suo percorso artistico.

Lo immagino perfettamente come il pezzo che passa per radio quando sei in macchina e ti fa ondeggiare a tempo, fa partire il film mentale in cuffia on repeat: è il brano che vai a cercare nella tua playlist perché ti lascia un’emozione differente, un racconto.

di Giulia Garulli

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Illustrazione di Luna Del Mar Severi

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Illustrazione di Alessandra Goldoni

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8 domande per Il Solito Dandy

Alzi la mano chi non ha mai perso la testa per una persona conosciuta ad un concerto, o su un tram, la mattina di sfuggita. E quante volte invece abbiamo indossato una maschera tradendo noi stessi, perché non siamo riusciti a dire alla persona che ci stava di fronte che, in realtà, non è vero che capiamo “il calcio, la convinzione di chi torna da Londra e si crede Liam Gallagher”.
Tra mille fantasie, amanti blu ed aragoste, abbiamo fatto otto domande (sì, ci piace essere precisi) a Fabrizio Longobardi, in arte Il Solito Dandy; ci ha parlato del suo nuovo singolo Thailandia, dei suoi video artistici e dei progetti per il futuro.

Ciao Fabrizio! Come stai? Come hai passato quest’ultimo periodo?

Ciao, io sto bene. O almeno, è strano non rispondere ad un “Come stai?” senza un “Tutto bene” dopo, sembra che ormai questo faccia parte di un meccanismo per cui diventa assurdo rispondere diversamente. Figurati che una volta una mia amica mi ha salutato dicendomi “Tutto bene, tu?” senza che io le avessi fatto la domanda. Ma comunque, mi piace pensare che l’umore sia un po’ come il tempo che cambia spesso, perciò ti direi che mi sento sereno variabile.
L’ultimo periodo, invece, è stato parecchio movimentato, come quelle scene dei film dove il protagonista fa mille cose alla velocità della luce e sotto passa la musica di Benny Hill; ecco direi che l’ho passato così, ma con in mezzo un bel po’ di personaggi dipinti, piadine al salmone, vestiti in miniatura e siparietti esilaranti.

Raccontaci, cosa rappresenta Thailandia per te?

Thailandia è più l’idea dello scherzo che della canzone. Credo che oggi vogliamo tutti prenderci troppo sul serio e a forza di fare così ci ritroviamo a passeggiare imbronciati o con la faccia come quei pesci degli abissi nelle illustrazioni dei libri di scienze per bambini, quando basterebbe essere un pochino più leggeri e ridere non del mondo ma con il mondo, un po’ come facevano i pittori e i cineasti surrealisti. Per questo ho scritto Thailandia, perché per insicurezza o per conforto tendiamo spesso a metterci in contenitori o scatole che non ci rappresentano e, facendo così, rischiamo di perdere quello che è davvero la nostra natura.
La canzone è scritta con un linguaggio ben specifico e lo utilizza facendo un po’ lo scimmiotto a questo mondo che pare un catalogo, proprio come i due protagonisti che fanno finta di essere quello che non sono solo per apparire brillanti o comunque interessanti l’uno agli occhi dell’altra. Ma a forza di fare così, vengono travolti da un mare di folla e di luoghi comuni che li allontana facendoli perdere per sempre. Quindi, sia nell’uscita ravvicinata con Boh, che nel modo in cui è stata lanciata, Thailandia è un modo per ridere ed un invito a essere più umani o perlomeno a credere nei pesci d’aprile, anche se in questo caso era maggio.

Nel testo, la persona della quale parli posta la foto di un tatuaggio per “discutere di gatti, yoga, santi e veg food”. Che rapporto hai tu con i social?

Credo che sia buono, o perlomeno mi piace questa cosa che ci sia un sacco di gente al mare, mi piacciono anche quelli che tagliano le saponette, anche se non capisco bene il perché lo facciano; forse non hanno abbastanza spazio sul lavandino. A me invece piace postare le foto dei pesci e, in realtà, utilizzo i social più che altro come un diario o per fare le scenette, soprattutto per fare le scenette, e questa cosa mi diverte un sacco. Oltre all’aspetto ludico, però, non amo particolarmente il mondo dei social, o almeno, preferisco vivere la realtà. Anche perché il mondo è davvero molto più incredibile di come ci viene mostrato e resta solo a noi viverlo con lo stesso spirito di meraviglia di quando inciampiamo su un video di un gatto sugli sci o delle feste tribali in chissà quale luogo sconosciuto.

Ci raccontano la storia due amanti dipinti di blu, entrambi con dei guanti alle mani. Ci ha colpito molto questa scelta! Com’è nata e perché proprio il blu?

Sai che questa cosa me la chiedo pure io. Credo che sia stata una visione, un sogno o qualcosa di simile, tipo Nel Blu Dipinto di Blu ma per Villa Borghese che muta in una giungla con le statue che fanno da spettatori. Poi forse non avevo mai visto il Maestro Guzzino [Simone Guzzino, produttore] blu e quindi perché no?
L’idea della coppia invece arriva da un sogno nel dormiveglia della Dottoressa Sandrucci che s’immaginava azzurrina tra le braccia del Maestro, e così TA DAH! Andiamo tutti a Villa Borghese con il diluvio a girare un filmino di nozze per amori surreali! Oltre il blu però mi interessava che uscisse il nocciolo della canzone: i personaggi sì, hanno la faccia dipinta ma sotto i guanti azzurri si vede la loro vera pelle, proprio a mostrare quanto nella vita tendiamo a mascherarci da qualcosa che non siamo, non rendendoci conto che, al di là del travestimento, siamo molto più simili di quanto pensiamo.

Thailandia arriva dopo Boh, il tuo primo singolo, che parla di luoghi comuni e mode che vanno e vengono. Ma come decidi l’ordine di uscita delle tue canzoni?

Mi affido ad una squadra di scienziati con le ampolle, che sbuffano e fanno le bolle fino a diventare come gli elefanti di Dumbo, che dopo un giretto sulle scrivanie arrivano alla cornetta del telefono e, quando rispondo, parliamo ore ed ore del più e del meno, finché non sbuffo pure io, ma le mie bolle non sono elefanti ma delfini ballerini che quando raggiungono la cornetta del telefono hanno tutto un po’ più chiaro. E così riparte il giro.

I tuoi video hanno tutti un’estetica ben precisa! A che cosa ti ispiri per creare questo tuo mondo?

Più che ispirarmi a qualcosa faccio girare tanto la fantasia, la possibilità di immaginare senza limiti mi pone nella condizione di massima libertà, un po’ come nei sogni. Sì, ecco, mi piace l’idea di poter vivere la vita come fosse un gigantesco sogno da cui escono personaggi fantasmagorici, coccodrilli che ballano il liscio, piscine giganti di pasta al pomodoro e chissà cosa mi passa per il mondo e la testa.

Il tuo nuovo album è in uscita dopo l’estate e non vediamo l’ora di ascoltarlo! CI puoi anticipare qualcosa?

Sì, sarà come un film, o almeno mi piace pensarlo così; come uno di quei film neorealisti dove i personaggi trovano grandi sorprese nei piccoli gesti quotidiani della vita e tutto questo li fa talmente ridere, che ad un certo punto, non si sa il perché, si commuovono. Ecco!

Fabrizio, grazie di averci accolti nel tuo pianeta onirico! A proposito, vedo che l’aragosta è un tema ricorrente nel tuo immaginario (e anche nella tua bio di Instagram, @ilsolitodandy); è un simbolo portafortuna?

Sai che il mio animale totem è il delfino? L’ho sognato una notte che usciva dal lago, arrancando nel giardinetto di fronte casa di una zia, ma credo che questo non c’entri molto, anche perché è successo dopo. L’aragosta invece credo che sia un animale rappresentativo di questo nuovo percorso, le canzoni parlano tanto di mare e sentimenti, non di amore, con quel velo di malinconia dietro cui si nasconde la morte dell’aragosta nella pentola che bolle. Non trovi un po’ di disillusione e amarezza in tutto questo? Un po’ anche come The Lobster di Yorgos Lanthimos, è un film che ti consiglio tanto.

Di Cecilia Nicolè

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Post-Punk

Il ritorno dei Gomma

Lo scorso maggio sono usciti i primi due singoli del nuovo album dei Gomma, Guancia a Guancia e Iena. All’inizio della pandemia, Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo, con un post su Facebook, annunciavano di voler trasformare il periodo buio che stavamo vivendo non in delle performance in streaming o dei messaggi motivazionali, ma in un’opportunità per riflettere, scrivere e reagire creando nuova musica.

E’ così che è nato il loro ultimo album, Z***** C****** (spoiler di Paolo!), che, come anticipano già i primi due pezzi, sarà sincero, violento, maturo e più ragionato nella scrittura e nelle emozioni che lo hanno influenzato rispetto a Toska e Sacrosanto.

Guancia a Guancia è un pezzo che ci urla in faccia la brutalità della realtà, quella delle abitudini di tutti i giorni, accostata alla paura e allo scetticismo del periodo in cui è nato l’album. Iena è pieno di rabbia e chitarre esplosive e, in un grido di insofferenza e di aiuto, Ilaria sembra chiederci: ‘ma voi vi fidate della realtà? E come fate?’.

Anche il video di Guancia a Guancia, diretto da Joseph Di Gennaro e Gianluca Fatigati, mette al centro la percezione del tempo, delle emozioni, della realtà, dei ricordi e lega tutto questo alla tecnologia, con un esperimento che affida all’intelligenza artificiale la rielaborazione di tutti i videoclip già pubblicati dalla band.

Abbiamo parlato con il gruppo post-punk casertano di questo video, del nuovo album, del loro Sud, della musica e di alcune particolari sensazioni e loro ci hanno regalato un bel po’ di riflessioni interessanti.

Ciao ragazzi! Prima di tutto, come va in questo periodo? Vi eravate resi conto di quante persone erano lì ad aspettare il vostro ritorno?

Paolo: Non lo so in realtà. Almeno io mi sento come se fossimo arrivati all’ultimo boss di un videogame, sconfitto questo c’è una porta che ci conduce su un palco su cui ci siamo noi che suoniamo, e questo pensiero mi rende felice. Spero solo di avere abbastanza pozioni nello zaino per superare senza problemi questo stronzo. Non penso di essermi chiesto quante persone ci siano dietro quella porta, ma spero di rivedere vecchi e nuovi amici.

Ilaria: Ciao, inizia ad andare meglio anche se la paura che crolli tutto c’è sempre, solo sta iniziando a diventare più semplice gestirla. Non credo ne siamo mai stati in grado, abbiamo avuto sempre questo limite è da ammettere.

Giovanni: Alti e bassi. Per ora stiamo ricevendo un sacco di amore, e questo vuol dire che più di qualcuno è riuscito a empatizzare con la nostra musica, ma un vero contatto potrà essere ristabilito solo con i live.

E quindi state già pensando ai primi live post pandemia o aspetterete che si torni alla ‘normalità’?

Paolo: Ci sto pensando costantemente dall’ultimo live che abbiamo fatto, e non ricordo nemmeno dove eravamo. Questo significa che c’è l’esigenza e la voglia di ricominciare. Il nostro non è un live particolarmente compatibile con delle sedie, se ci pensi quando vuoi organizzare una festa la prima cosa da fare è togliere le sedie nella stanza, ma la voglia di salire un palco è troppo grande. Abbiamo bisogno di suonare e di raccontare questa nuova storia alle persone.

Giovanni: Sarà diverso, ma sarà qualcosa.

Non siete tra le band che, da marzo 2020, hanno fatto di tutto per rimanere in contatto con il pubblico, anzi, in un post su Facebook avete chiaramente espresso il vostro punto di vista, nettamente contrario ai live in streaming e ai messaggi di speranza azzardati che le persone si aspettavano. Voi invece vi siete fermati a pensare, avete scritto, avete suonato e siete riusciti a trasformare in musica e testi i sentimenti di quel periodo. Quali sono state le sensazioni e i pensieri che vi hanno guidato?

Ilaria: Ci siamo allenati, o almeno io l’ho vista così. È stato un intenso addestramento alla guerra che stava iniziando. Era il modo più semplice – e anche che ci viene meglio – per combattere, ma è stato anche antidoto e conseguente cura per me, per certi versi.

Giovanni: Non sono ancora riuscito a interpretare questo periodo storico, ne stiamo ancora uscendo e tardo a metabolizzare tutto. Ci eravamo resi conto che l’unica cosa coerente con noi stessi che potevamo fare era fermarci e ripensare al nostro ruolo, o meglio, al ruolo che la nostra musica avrebbe potuto avere in questo momento. Il risultato è stato un disco molto più “politico” – in senso stretto – dei precedenti, forse meno legato a delle esperienze concrete e più vicino ad una sorta di flusso di pensieri e ragionamenti.

Questa scelta ha confermato il carattere emo/punk della vostra band che si riflette nelle vostre canzoni: nessun perbenismo, tanta insofferenza e provocazione. E per voi cosa vuol dire essere punk?

Ilaria: Avere la cresta ed i polsini con le borchie.

Giovanni: Fare quello che vuoi, come lo vuoi tu, ma esser convinti che sia la cosa giusta. Non credo che oggi possa esistere un punk “non ideologico”. Il resto è tutta estetica.

Il risultato di questo ultimo anno è quindi un album pronto per il lancio, sincero, spietato e senza mezzi termini, come i due singoli che lo anticipano. Com’è stato lavorarci in un periodo difficile per tutti e per voi musicisti in particolare? Avete sentito grandi differenze rispetto al lavoro per gli altri due album?

Matteo: Lavorare in un momento come questo è stato sicuramente una cosa nuova per tutti noi. Almeno per quanto mi riguarda, ho avuto molta difficoltà a fare qualsiasi cosa riguardasse la musica, in generale. A darmi la spinta è stato Giovanni, abbiamo iniziato a scrivere a distanza mandandoci dei provini registrati in camera, è stato un ottimo momento per riprendere a scrivere non potendoci vedere. Scrivere in quel momento ed in quel modo ha preso senso, ed è stato piuttosto rapido. La differenza, invece, l’ho sentita perché non avevo mai scritto delle linee di basso con fuori casa l’apocalisse.

Paolo: Questa pandemia per quanto abbia massacrato tutti, dal punto di vista compositivo ci ha aiutato. Il fatto che tutto il mondo all’improvviso si sia stoppato, che per un attimo abbia rallentato la sua corsa frenetica, ci ha dato la tranquillità necessaria per poter scrivere. Il cambiamento nella scrittura è stato radicale. Sacrosanto, come Toska, è nato nella nostra sala prove,  z….. c…… (ops, spoiler) è nato attraverso uno scambio di demo su Wetransfer. Giovanni ha imparato ad usare un po’ di programmi per registrare tutto da casa, ci siamo adattati, e devo dire che abbiamo sperimentato un nuovo modo di lavorare insieme che ci è risultato molto produttivo. La parola più usata negli ultimi due anni? Smart w.., no dai non la dico.

“Guancia a guancia/ abitudini a sud”: in che rapporto siete con il vostro Sud?

Matteo: Bene bene, dai, tutto a posto.

Giovanni: Amore/odio. Vivere nella provincia al Sud per molti versi vuol dire convivere con un doppio svantaggio. D’altro canto, questo ti permette di avere una prospettiva più onesta sul mondo, anche e soprattutto quello musicale, nel nostro caso. C’è molta meno attenzione sulla scena musicale ma forse questo ci permette di vivere la creatività in modo più libero e meno forzato.
In Italia il mainstream sembra essere polarizzato tra Milano e Roma: vengono tutti da lì o se ne vanno tutti a vivere lì; noi non ne facciamo parte quindi quella dialettica non mi interessa. Il nostro Sud non è nemmeno quello di Napoli che nella sua complessità raccoglie i caratteri della grande città e del vivere spicciolo allo stesso tempo; se mi guardo attorno vedo la periferia, quella vera; credo che i nostri simili abbiano ancora un forte bisogno di essere rappresentati correttamente.

La copertina dei due singoli, così come i video, completano l’immaginario cupo dei due brani. Avete voglia di parlarci un po’ del progetto grafico? Vi siete affidati completamente a Celine Roberti o lo avete ideato insieme?

Giovanni: L’idea è stata sviluppata insieme. Volevamo qualcosa che rappresentasse brutalmente i sentimenti che hanno guidato il disco, sacrificando tutto il resto: la spersonalizzazione, l’idealizzazione del progresso, la ricerca illusoria di nuove abitudini…

Per questo abbiamo inseguito un’idea che graficamente ricordasse i cataloghi commerciali, le pubblicità, le riviste di design/arredamento. Una bella favoletta che abbiamo bisogno di raccontarci per non morire, per fingere che stia andando tutto bene.

Il video di Guancia a Guancia è stato realizzato in una maniera particolare, la descrizione su YouTube è come un pannello esplicativo di un’opera d’arte contemporanea. La percezione distorta dei ricordi causata dall’uso della tecnologia, di cui magari non ci accorgiamo, narrata nel video, e l’estrema chiarezza con cui invece raccontate il periodo di lockdown nella canzone possono sembrare in contrasto, anche se sono collegate. Com’è nata l’idea di questo accostamento brano/ video?

Giovanni: Guancia a guancia ha un testo molto “esplicito” nel suo messaggio, nonostante l’espediente metaforico. Volevamo qualcosa che visivamente evocasse i sentimenti comuni (almeno a noi) del lockdown evitando però un collegamento ‘diretto’. A volte non parlare di un argomento in un modo unidirezionale è il modo migliore per comunicarne l’essenza, penso ad esempio a come vengono evocati gli orrori del fascismo in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini.

Quando Joseph (@pepp.irl che ha diretto il video insieme a Gianluca Fatigati, amici di lunga data) ci ha proposto questa idea ci è sembrata subito la scelta giusta: la distorsione del ricordo passato e la nostalgia per un futuro che non hai mai vissuto, le giornate vuote e la percezione del tempo che corre in sensi opposti. Tutto questo alimentato dalla tecnologia che da tempo contribuisce alla “costruzione dei ricordi”. Il gesto automatico di pubblicare una storia su Instagram o di scattare una foto e immortalare un momento e alla fine chiedersi: Ero davvero io? Erano quelle le mie vere emozioni o erano solo le emozioni che ricordo di aver avuto? Ho creato un ricordo fedele o una falsificazione di quel sentimento?

In un’intervista del 2017 affermavate di non voler fare della musica la vostra professione. Avete cambiato idea?

Giovanni: No. Ma forse è meglio chiarirsi. Non voler fare della musica la mia professione non vuol dire che io non sogni di vivere di questo, di dedicare la mia intera vita a questo. Vuol dire piuttosto rifiutarsi di vivere la musica come un lavoro in senso stretto: non vorrei mai dovermi svegliare al mattino e pensare “ok, oggi devo lavorare, devo scrivere qualcosa”.

Scrivere per noi vuol dire aver bisogno di scrivere; è anche per questo che c’abbiamo messo due anni a far uscire qualcosa.

Di Marika Falcone

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SDENG: Il suono delle scelte sbagliate e del nuovo capitolo delle Altre di B

Altre di B, la band indie – rock made in Bolo, sono Giacomo, Andrea, Giovanni e Alberto e sono tornati il 14 maggio su tutte le piattaforme digitali con un nuovo progetto, un album concettualmente legato ad una fase nuova della loro storia personale: SDENG.

La campagna è la meta prediletta per il loro quarto trasloco, a cui corrisponde come da tradizione un album, il quarto, che ci regala dieci tracce, anticipate dall’uscita di coppie di singoli, a loro volta associate a coppie di artwork sui muri della loro città, realizzati dallo street artist Mannaggia. La scrittura non ruota più intorno ad un tema unico, come nei precedenti progetti Sport e Miranda!, ma il risultato è comunque organico e coerente, ma mai privo della spontaneità tipica del loro sound, che li ha portati alla conquista di importanti palchi internazionali (Primavera Sound, SXSW, Sziget, Europavox).

In questo quarto capitolo ci sono ritmi più rilassati, in una miscela ben riuscita stili post-punk e jangle pop. Stavolta il loro suono è quello delle scelte sbagliate, degli “scontri della vita”, nella quotidianità come nei rapporti interpersonali, indagati perfettamente in brani come Mommy e Green Tea Tiramisù, personalissimo pezzo dedicato all’ex tastierista della band.

Abbiamo chiacchierato un po’ con loro ed ecco cosa ci hanno raccontato!

Ciao ragazzi! SDENG è il vostro quarto album, ma immagino che ogni volta sia un po’ la prima volta. Come state?

Ciao Futura 1993! Noi stiamo bene, anche se come tutti veniamo da un anno e mezzo gravoso, nel quale abbiamo dovuto rimandare l’uscita di un disco pronto da tempo, vederci attraverso la webcam del computer e rinunciare all’attività dal vivo. Ciononostante è stata una gestazione divertente e una produzione d’altri tempi, una nuova prima volta, come fosse il primo disco. SDENG è un album registrato come negli anni Sessanta, in presa diretta e con post-produzione analogica e nessun artificio: un orecchio attento noterà stonature, difetti, spigoli e qualche errore. È a tutti gli effetti un manufatto.

SDENG è stato realizzato in un granaio e in questo periodo storico si parla spesso di un ritorno generale alla vita semplice, rurale – una sorta di deurbanizzazione. Perché avete scelto la campagna e cos’ha rappresentato per voi e per questo progetto?

Andrea ha in affitto un granaio, utilizzato come deposito di chincaglieria, sacchi di grano, mobili in disuso e vecchia attrezzatura agricola. Così dopo esser stati sfrattati dal garage che utilizzavamo per le prove abbiamo deciso di ottenere il massimo rendimento da un granaio, che non è propriamente un luogo adatto alla musica, ma riadattandolo un poco è diventato un ambiente straordinario. Dopotutto sei circondato dal silenzio, dai cani, gatti, pavoni e volpi. Quando hai tanto spazio attorno le cose diventano più semplici: è né più né meno il concetto del foglio bianco da scarabocchiare. Non ci siamo imposti limiti di tempo, limiti di scrittura e dettami discografici. Per noi è un lavoro schietto e diretto.

SDENG è un rumore che avete rappresentato graficamente con un pallone che non entra in canestro, ma risuona sul ferro. A me, d’impatto, ha ricordato un colpo forte, preso di testa, di quelli che ti stendono. Come mai questo titolo?

È il suono secco e immediato di tutti gli scontri della vita: è un incidente, è un battibecco, è un canestro sbagliato da un metro di distanza, è l’ingiustizia e la prevaricazione. Ma è anche il rumore della rivalsa e dello sfogo, dell’innamoramento, della capacità di dire no e della riconquista dei propri spazi. È stata una scelta molto semplice: passeggiando per Bologna abbiamo visto quel disegno su un muro (è dello street artist e sassofonista Mannaggia, che abbiamo successivamente contattato per il resto delle grafiche) ed è stato un rumoroso colpo di fulmine. Era il tassello mancante allo spirito con cui abbiamo affrontato questo lavoro.

L’unica featuring del disco è con i regaz dello Stato Sociale, nello specifico Checco e in un brano in italiano. Parlatecene.

SDENG ha visto la partecipazione di diversi musicisti che ci piacciono (Luca Lovisetto di Baseball Gregg, Ilaria Ciampolini di Pop-X e Immanuel Casto, Dario Nipoti e Lorenzo Musca dei Blaus). Avevamo questo brano samba che volevamo assolutamente cantare in portoghese e avevamo pensato alla voce di Asia Morabito (Sleap-e), ma con lo scoppio del lockdown abbiamo dovuto rimandare i lavori. La scorsa estate, dato che Giacomo stava lavorando al disco di Checco (quello che è andato a comporre l’ultimo lavoro de Lo Stato Sociale) abbiamo pensato che per praticità potevamo avvalerci della sua voce ed di accantonare il portoghese, del quale avevamo sottovalutato la musicalità. Siamo comunque in debito con Asia e ci rifaremo.

L’arte e il linguaggio dei muri. Qual è il vostro legame con l’arte figurativa, che vi ha portato a voler rappresentare le dieci tracce del disco sui muri della vostra città?

I muri di Bologna sono da sempre un pot-pourri di creatività autentica e, al di là di quello che uno pensi in materia di arte di strada e vandalismo, è un tipo di espressività estremamente relazionato col tempo in cui si vive. E i disegni sono materia viva, non pelle morta. A Bologna si parla di droga, anticlericalismo militante, assassins de la police, musica, espressioni lapalissiane ed emancipazione. Tutto però ha inizio anni fa a San Francisco, dove vediamo l’immagine di una nuvola gigante con al centro le parole It’s a cloudy day in San Francisco. Lampante, potente, bello. È il primo di tanti SDENG. Di arte di strada ne parlato anche qua.

Quanto ha inciso su di voi, come artisti e come ascoltatori di musica, e su quest’album l’assenza dell’assembramento sotto palco?

In tutta onestà non ha spostato granché. Certo, è cambiata l’interazione palco-pubblico, ma è una lunga stagione delle vite di tutti destinata a cambiare e tornare ai vecchi canoni. E, detta francamente, i concerti con le sedie ci sono sempre stati. Ahimè.

Il vostro concerto dal balcone in Bolognina quest’anno ha avuto un sapore diverso, quello del tempo storico che stiamo vivendo. Come musicisti, avete avuto modo di entrare in contatto con realtà musicali fuori dall’Italia: secondo voi esiste nel nostro Paese un problema, istituzionale e non, con il settore artistico?

Il 6 gennaio eravamo a un passo dall’eseguire il solito concerto della Befana, che suoniamo dal balcone di casa di Giacomo dal 2011: ma, viste le circostanze, ci sembrava una mancanza di rispetto. Abbiamo deciso di fare la cosa più sensata, ovvero di salire sul balcone con gli strumenti e di non suonare. Questa lunga stasi è stata (è da lungo tempo) la condizione dell’arte per oltre un anno, arte che è stata messa alla porta dalle istituzioni, quasi criminalizzata, depennata dalle agende governative, dimenticata e ridicolizzata. Tutto questo mentre il resto della macchina blaterava di riaperture a fronte di migliaia di contagi giornalieri e dei morti nelle terapie intensive. Il problema esiste ed è legato al fatto che, sia chiaro generalizzando, questo non è considerato un lavoro a meno che non si riempiano gli stadi, o non si vada in televisione. Esistono lavori di serie A e lavori di serie B, questo è il problema.

 Il posto più bello dove vi ha portato la vostra musica e il palco sui cui ancora non siete salite, ma che sognate di calpestare?

La prima volta in America (Shrine di New York City) è il posto più bello dove ci ha portati la musica. Il mio sogno (Giacomo) è il tendone BBC del festival di Glastonbury.

Di Elisabetta Picariello

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