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Le cinque cose preferite dei Tales Of Sound

Il 14 gennaio è uscito “Paura”, il terzo singolo dei Tales of Sound. Il trio di Vicenza, seguendo lo stile dei precedenti brani, metto a nudo le proprie fragilità in un brano molto attuale che parla proprio della paura dell’altro.  Ci scontriamo tutti i giorni con una realtà che ci sta dividendo e allontanando sempre di più dagli altri. Questo sentimento, questa paura, è come un urlo che rimbomba nelle nostre teste. I Tales of Sound non si nascondono dietro la maschera dei supereroi, tutt’altro. Il loro scopo è raccontare storie reali, di persone fragili.

La natura ci dona di uno strumento che definisce il coraggio: la paura. L’istinto che sovrasta tutti gli altri con lo scopo di preservare la specie da ogni pericolo. E se quest’istinto si manifestasse proprio in presenza della tua stessa specie? Il circuito mentale genera panico, paranoia, allucinazione dissociative.  Paura è un delirio fobico che racconta il terrore di essere umano fra umani, senza sentirsi tale. Racconta il percepirsi come inferiore, debole, sbagliato rispetto alla sfavillante massa che plastifica la propria esistenza. Il timore di essere vivo e considerarlo già una conquista. Paura è indossare un sorriso di circostanza che nasconde urla di disagio. “Pillole Acide Urlano Rabbia Asettica”, soffocati dall’inevitabilità di questa vita“, così il trio descrive il proprio brano.

Noi per l’occasione abbiamo chiesto loro quali sono le loro 5 cose preferite.

(risponde Samakruss)

Tutta la discografia di Giorgio Gaber.

Il Signor G, con le sue canzoni, mi ha spiegato come funziona il cuore. La meraviglia e lo schifo che si annida dentro le persone. Da l’inquietante “io se fossi Dio” (potente ancora oggi), dove rivedo l’antica ostilità sociale e difficile comprensione dell’uomo becero ed egoista, alla leggera “Barbera e Champagne” che ti lascia l’amaro in bocca della disparità sociale accomunata dal calcio e l’amore. Canzoni, monologhi, interventi. Nella sua carriera credo ci abbia donato tutto il suo sapere senza che fossimo pronti. Ancora inarrivabile.

Pasolini

Niente mi ha creato tanta confusione, dolore e attrazione come le opere di Pasolini. In particolare, Salò e le 120 giornate di Sodoma. Il film rende in maniera disturbante, vera e cruda la natura umana. Inutile nasconderci dietro a perbenismi di sorta, tutti si tenta di divenire persone socialmente accettabili ma allo stesso tempo tutti coltiviamo una macabra verità che nascondiamo nei più reconditi pensieri.

Doctor Who

Qualche “whovians” mi ucciderà ma, non intendo la serie classica. In particolare, con Tennants e Capaldi, Il dottore è il personaggio che, di stagione in stagione, è così umano da farci comprendere perfettamente il fatto che sia alieno. Così umano da non esserlo. Sensazione a cui a volte mi sento davvero vicino. Cuore, coraggio, decisioni, famiglia, solitudine, paura. Tutti stati emotivi che fra un viaggio spaziotemporale e l’altro, il dottore ci insegna ad affrontare. 

HellBlazer e Spawn

Fumetti che ho scoperto per sbaglio in adolescenza e che hanno rafforzato in me il concetto fluido di bene e male. Dal buon John Constantine, tabaggista spediscidemoni dal senso dello humor delizioso, ho appreso come ci siano sfere di correttezza nell’agire. Soprattutto, ho capito come la redenzione è un ottima strada da intraprendere nella vita ma che, che lo si voglia o meno, diviene nel tempo una banale pausa dal prossimo passo falso. Quindi conviene arrendersi? No, conviene provare fin che il tempo ci è concesso. Da Al Simmons, Spawn, ho imparato che fare patti con Malebolgia non è conveniente. Che devi capire per chi lavori prima di finire a guidare orde di demoni in nome del male. Che l’amore non ha dimensione o tempo, è una scelta che se vera va oltre l’eternità. Ultima cosa, anche sei brutto e tendenzialmente non buonissimo, niente ti impedisce di agire per il bene di qualcuno. Non di tutti.

La musica

In un verso scrivevo “la musica è mia madre, ed io ho peccato d’incesto”. Non riesco a spiegarlo troppo bene. Posso solo dire che nel mio caos interiore la musica si allinea al mio animo a seconda del periodo storico. Come amica non mi ha mai deluso, l’ho sempre trovata lì vicino a tenermi la mano nella gioia e la tristezza. Come amante è decisamente una peripatetica. Può toglierti il fiato come abbandonarti e riprenderti quando vuole. Quando fa l’amante, non ho volontà. Come madre, mi rigenera con qualità di umano diverse. Come se mi buttasse in un turbinio di genesi perenne riportandomi a nuova vita dopo 3 minuti di qualche frammento di se stessa.

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I Listrea hanno pubblicato un disco che è un vero e proprio thriller psicologico

Era dai tempi dei Verdena che non mi innamoravo così di una band, in un modo così viscerale e sincero. Mi ricordo ancora com’era andata: era il periodo di Emule e ci si passava intere discografie su pesantissimi hard disk che facevano il giro di Milano passando da uno zaino all’altro. In uno dei momenti più fortunati in cui l’hard disk toccò a me ci trovai dentro Il suicidio dei samurai, e lì cambio tutto. Mi ricordo come quel disco, più che una serie di file che mi tenevo nel mio iPod, era diventata la colonna sonora di quel 2004 così complicato (come tutti gli anni passati al liceo). L’angoscia di quello che stavo vivendo si mischiava alle chitarre di Alberto Ferrari e mi soffocava ogni volta che partiva Luna. Inutile dire che i Verdena sono tra le mie band preferite, anche oggi.

Con i Listrea e il loro album di debutto Formicolio è andata più o meno allo stesso modo, un disco che arriva quasi per caso, e quest’ansia generale causata dai tormentoni estivi di Sanremo che finalmente esplode alle prime note di Steso in carmine. I Listrea, con una maturità musicale incredibile, mischiano più genere, in un frullatore che sta per esplodere. Non è stata una settimana facile questa in cui ho ascoltato Formicolio, perchè la nebbia, il freddo milanese e l’angoscia di questi testi surreali tendono a conquistarti e a non lasciarti più andare. Ho vissuto in un thriller psicologico popolato dalle persone della mia vita, dai visi distorti e la voce falsata. Formicolio è un incubo ad occhi aperti, di quelli dilatati che tengono il pubblico in tensione fino al colpo di scena. Formicolio è il cinema di Gaspar Noè ambientato in Brianza, il più allucinato dei numeri di Dylan Dog.

Mi mancava sentirmi così, mi mancava trovare un disco in grado di turbarmi, un disco che nasce nell’intimità più estrema di una cameretta, perchè sembra quasi che i dischi da cameretta non esistano neanche più. Durante quest’ultima estate infatti, la band lombarda, inizia la scrittura di un nuovo nucleo di canzoni, registrate e prodotte completamente in home recording l’inverno stesso. “Formicolio” svela quindi un disturbante mondo che ci riporta nei locali sotterranei e nel cuore della scena musicale underground: un mondo nostalgico che mischia elementi di noise, psichedelia e progressive e che ora, dopo una pandemia globale, ci sembra fantascientifico e sconosciuto. Da non perdere per nessun motivo al mondo, mi ha salvato dal periodo di Sanremo.

CM

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Cosa c’è nella camera di Raele

Esce giovedì 20 gennaio 2022 per Le Siepi Dischi e in distribuzione Believe Digital rame“, il singolo che segna l’inizio del nuovo percorso di Rachele Marinelli come raele. Questa canzone è una lettera d’amore scritta di getto, un primo capitolo di un disco in uscita nel 2022, un brano scritto su un treno sincero che suona come il più caldo dei colori. 

Noi per l’occasione siamo stati a casa sua, ed ecco cosa ci ha mostrato!

L’utilità del camino in camera mia? In sette anni che abito a Roma non l’ho mai acceso e con gli anni, è diventato un ripostiglio per le mie cianfrusaglie e il mio altarino dei ricordi… ma andiamo a vederli meglio. 

Una vecchia polaroid dei miei genitori: ho sempre amato conservare i ricordi, soprattutto le foto, perché immortalano dei momenti finiti impossibili da riprodurre. Mi piace imprimerli in una polaroid e custodirli lì per non farli spegnere.  Mi ricordano di me, di quei piccoli pezzetti che ho lasciato indietro e che, abbracciati in una foto, posso ritrovare sempre allo stesso posto.

Cosa scontata ma mai banale: la mia prima chitarra. Non le ho mai dato un nome e solo adesso mi sto pentendo di non averlo fatto; quindi ho appena deciso che si chiamerà Gisella. Tengo molto a lei, dal primo momento in cui l’ho vista in una vetrina di Napoli me ne sono innamorata immediatamente. Non so se vi è mai capitato di vedere qualcosa o qualcuno ed esserne attratti magneticamente, il classico colpo di fulmine. Ecco, con lei è successo proprio così e da quel momento non mi ha più lasciata.

Il regalo perfetto in un momento catastrofico: questo vinile, come la persona che me l’ha regalato, è stata la mia salvezza, fonte d’ispirazione e di conforto in un periodo buio della mia vita. 

Over the rainbow: Cosa c’è di più sorprendete di un arcobaleno? Per me rappresenta il cambiamento, la speranza in un futuro in cui la diversità sia considerata una ricchezza, la rinascita di chi ha avuto il coraggio di accogliersi e amarsi per come si è. Ogni sera, prima di addormentarmi, questa lampadina mi ricorda quanto sia importante la mia libertà di amare chiunque io voglia amare. 

Chi sa che cos’è questo? E’ proprio lui, il Kazoo. Questo fantastico strumentino mi è stato regalato da una cara amica e mi ha accompagnata per le strade di Stoccolma e Roma nel mio periodo da Busker. La curiosità e la gioia negli occhi dei bambini che si fermavano ad ascoltarmi, i centinaia di passanti di cui incrociavo gli sguardi, mi hanno spronata a proseguire il mio percorso artistico e a diventare oggi raele.

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“Come Serpenti” è il debutto di Hermes

Disponibile dal 5 gennaio, “COME SERPENTI”, il singolo d’esordio di HERMES distribuito da ADA Music Italy. Il brano, prodotto da Alessandro Landini e masterizzato da Marco Ravelli ( Pinguini tattici nucleari, Iside, Chiamamifaro), racconta di una relazione ormai arrivata al capolinea, e di quanto a volte può essere difficile accettare e superare la paura che la fine di un rapporto comporta.

Il sound mescola rnb, indie pop e it pop. Un brano uptempo dove ritmiche funky delle chitarre sostengono un groove ballabile e catchy. Hermes è Christian Cotugno, giovane cantautore classe 2000. Si approccia al mondo della musica e dalla danza sin da bambino e la sua musica racconta la “generazione z” e le loro storie d’amore con ironia ed un pizzico di leggerezza. Nel 2021, dopo diverse esperienze musicali, inizia a lavorare al suo primo EP anticipato dal brano “Come serpenti” edito da Aurora Dischi Publishing e distribuito da ADA Music Italy.

Hermes a risposte alle nostre domande in questa intervista:

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Il battesimo astrale di Carla Grimaldi

In occasione dell’uscita del suo primo singolo da solista, “Nebula”, abbiamo fatto qualche domanda alla violinista e musicista (da anni sul palco con Blindur) Carla Grimaldi, che battezza il suo debutto in solitaria con un brano dedicato all’osservazione dei cieli, metafora di una ricerca esistenziale (oltreché musicale) che non vuole fermarsi alla punta del proprio naso.

Carla Grimaldi, una vita sui palchi e oggi ti metti in proprio. Era da tanto che covavi la necessità di una tua affermazione solistica oppure è un qualcosa che è nato da poco, questo tuo slancio solitario? 

Con Blindur sono sempre stata estremamente libera di esprimermi e di sperimentare con il mio strumento nell’ambito della musica folk alternativa, della quale sono una grande fan, ma la mia passione per le Amiina e per i Sigur Ròs mi ha spinta verso l’esplorazione di nuovi orizzonti musicali. È da qui che nasce la mia scelta di avviare una carriera solista, che non si discosta in realtà così tanto dall’estetica musicale di Blindur. Ho voluto mettermi alla prova, capire compositivamente fin dove potevo spingermi, lavorando su idee accumulate negli anni ma lasciate a fermentare. In generale comunque, direi che ho sempre fantasticato intorno all’ idea di un mio progetto solista, tutto incentrato sugli archi e sull’elettronica, e sono molto felice di aver finalmente iniziato!

Tra l’altro, “Nebula”, il tuo brano d’esordio, vede la collaborazione artistica con Massimo De Vita (Blindur), con il quale hai condiviso gran parte della sua e della tua esperienza musicale. Eppure, il linguaggio utilizzato qui è ben diverso rispetto a quello di Blindur: esiste una continuità tra ciò che è “Nebula” e il percorso da cui vieni? Oppure il brano è una “rottura” con tutto ciò che lo precede?

Dal punto di vista estetico, sicuramente “Nebula” rappresenta una sorta di rottura con quello che è l’immaginario sonoro di Blindur, in quanto lontana dall’universo folk-rock-alternativo e più vicina ad un immaginario post-classico. Quest’ultimo, è un mondo al quale mi sono avvicinata negli ultimi anni, principalmente ascoltando artisti quali Olafur Arnalds, Rob Moose e Amiina, ma anche grazie alla mia collaborazione con Manuel Zito, pianista e compositore, con il quale ho collaborato per la colonna sonora del documentario “Le Soldat”, con la regia di Davide Bongiovanni. Io e Manuel siamo inoltre tra gli artisti coinvolti nel “The Outlaw Ocean Music Project”, un progetto molto ambizioso del giornalista Ian Urbina (New York Times, National Geographic), volto a denunciare tutte le azioni illegali che coinvolgono gli oceani. Vi faccio però un piccolo spoiler dicendo che l’atmosfera generale di “Nebula” si potrà ritrovare nelle prossime uscite di Blindur,  programmate per il 2022! Quindi teneteci d’occhio! In generale comunque, sono convinta che ogni artista sia influenzato da tutto ciò che suona e che ascolta, e per quanto mi riguarda Blindur è un progetto che mi ha formata e continua a formarmi come musicista, quindi direi che esisterà sempre una continuità tra i miei lavori e Blindur.

“Nebula” è un concetto, prima ancora che un brano, che oggi ci chiama ad alzare lo sguardo, e a capire quanto siamo piccoli e destinati a scomparire. Il brano, con le sue sfumature eteree, aiuta effettivamente il viaggio a farsi concreto. Ma come nasce il tuo esordio, e perché hai deciso di chiamarlo “Nebula”?

Il mio esordio è legato alla mia formazione scientifica, e al fatto che le Scienze Naturali sono per me grandissima fonte di ispirazione sia quando compongo che quando suono. Da qui mi è piaciuta l’idea di dare al brano un nome scientifico che richiamasse al concetto di “nascita”: “Nebula” è infatti il nome scientifico delle nebulose, la materia da cui si formano le stelle.  

Pur essendo allergici alle categorie e ai generi, è evidente che “Nebula” non rientra esattamente nei canoni del “pop”, eppure possiede qualcosa che lo rende estremamente melodico e “popolare”. Quale ritieni che sia, oggi, il destino della musica strumentale e come definiresti il tuo brano d’esordio?

Rispetto alla musica strumentale, la definirei un Universo in espansione. Questo perchè sempre più artisti hanno side projects strumentali, e perchè la musica strumentale sta acquistando un ruolo sempre più importante nella nostra quotidianità, diventato rifugio emotivo spesso, e assumendo ruoli importanti anche nel mondo visual e cinematografico. Definirei “Nebula”  un brano pop nell’immaginario, nella melodia e nella struttura, con un carattere classico legato all’orchestrazione.

Tra l’altro, pare esserci un concept ben preciso che collega il tuo esordio con quello che verrà, e sopratutto con l’outfit studiato per te da APNOEA. Ti va di spiegarci un po’ il tutto?

APNOEA è un giovane brand napoletano con il quale condivido importanti ideali. I due fondatori Pina Pirozzi ed Enzo Della Valle utilizzano materiali non convenzionali e giacenze di magazzino per la realizzazione dei capi, con l’intento di porre l’accento sulla questione sostenibilità e rispetto per l’ambiente, due temi per me molto importanti. Inoltre, propongono abiti sizeless, senza taglia, secondo il tentativo di far aderire un abito non al corpo, ma alla personalità di chi lo indossa, lanciando a mio avviso un importante messaggio di inclusività nel mondo della moda. Questi presupposti, insieme alla straordinaria bellezza dei loro capi, mi hanno totalmente colpita, non capita facilmente di sentirsi così affini artisticamente ed ideologicamente, e da lì la volontà di collaborare. Tra l’altro, vi svelo che “Nebula” è solo l’inizio della nostra collaborazione! I brani che seguiranno andranno ad affrontare il tema del Climate Change, ed io ed APNOEA stiamo già lavorando a nuove idee per i prossimi outfit. 

Salutiamoci con un proverbio delle tue parti, che sia di buon auspicio per questo 2022 già zoppicante!

Dicette ‘o pappice vicino ‘a noce, damme ‘o tiempo ca te spertose” (Disse l’insettino alla noce, dammi il tempo che ti buco). Credo che sia un proverbio di ottimo auspicio: credici, lavora sodo, persevera e, piano piano, arriverai al tuo obiettivo!

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Marchi ci consiglia 5 film del cinema queer

Gennaio di Marchi è una ballad intimista di genere Pop. Si apre come una piano-song con rimandi alla tradizione della musica d’autore italiana e si sviluppa gradualmente con steel guitar, synth e percussioni avvicinandosi alle sonorità dell’indie-rock contemporaneo. Prodotta da MarchiAlexanderWoodbury (Street Clerks) e AndreaCola (Sunday Morning) presso lo StoneBridge Studio di Cesena.

Il video che lo accompagna è ambientato negli anni ’30 tra le montagne innevate della Val di Mello e vede protagonisti di una scampagnata romantica d’altri tempi Antonio e Pietro, due amici che vivono intimamente la scoperta del loro amore. Il videoclip è diretto da Giovanni Iavarone ed è prodotto da Francesco De Giorgi per la Nostos Production. È un breve racconto cinematografico di taglio intimista che ritrae con sguardo poetico ed evocativo i frammenti di una giornata felice nelle vite dei protagonisti. Il cast  è composto da Michele Piccolo, Pietro Gambacorta e Marchi. Le riprese si sono svolte tra la Lombardia (Sondrio) e il Lazio (Roma, presso il Museo Agostinelli). 

Per l’occasione, abbiamo chiesto a Marchi di consigliarci 5 film del cinema queer che tutti dovrebbero vedere:

HAPPY TOGHETER, di Wong Kar-wai

Due innamorati pieni di tormento che si prendono a botte dall’inizio alla fine del film. Ho amato questa regia sensibile e di vera avanguardia che indaga questo amore borderline con l’occhio umano di chi soffre insieme ai protagonisti. Un film d’autore contemporaneo dal sapore antico, romanticismo senza fronzoli sentimentali. 

BEAUTIFUL THINGS, di Hettie Macdonald

Uno dei film più teneri e più semplici ch’io abbia mai visto sul tema della scoperta, dell’amore e dell’amicizia che si trasforma. Un film per la tv di metà anni ’90 che purtroppo in Italia non ha visto quasi nessuno. Uno dei finali cinematografici più belli di sempre, da groppo in gola col sorriso. 

BELLI E DANNATI, di Gus Van Sant

Avrò avuto dieci anni, lo vidi in terza serata nella piccola tv della mia cameretta, in segreto, al buio, mentre dormivano tutti. Una visione carbonara! Ricordo ancora la paura di essere scoperto. Se guardi questo film senza innamorarti di River Phoenix già dalla prima inquadratura c’è qualcosa che non va.

AMICI, COMPLICI, AMANTI, di Paul Bogart

Scoperto in pandemia, un film divertentissimo e toccante uscito nel mio anno di nascita, il 1988. Soltanto negli anni 80 si riuscivano a scrivere dei film così profondi e leggeri allo stesso tempo. Anne Bancroft è di un’incredibile sensibilità nell’incarnare le resistenze di una madre che non comprende l’omosessualità del figlio senza per questo negargli il suo amore. Attenzione perché si ride e soprattutto si piange.

A WONG FOO, GRAZIE DI TUTTO! JULIE NEWMAR, di Beeban Kidron

I machi più machi di Hollywood degli anni ‘80 e ‘90 in versione drag queen che si mettono in viaggio su una Cadillac per sfrecciare verso Hollywood e concorrere all’elezione di “Miss Drag Queen dell’anno”… può bastare?! Lezioni di vita apparentemente banali impreziosite da un umorismo quasi toccante e da un’eleganza impeccabile. Ricordo di averlo visto da bambino seduto sugli sgabelli del ristorante dei miei genitori, in attesa che finissero di lavorare. Magico.

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Il mondo oscuro di Tigri, a tinte pastello

Sono giorni difficili dove non faccio altro che passare da un disco all’altro alla ricerca di qualcosa che mi colpisca davvero. Ho la casa che è un casino, e non faccio altro che finire su dischi indie dell’est Europa, sperimentazioni incredibili, mondi inascoltabili, sono in un periodo di crisi mistica dove nulla sembra appassionarmi e, ve lo dico sinceramente, son finito a cercare l’assurdo, l’ambient rumena e i canti popolari marocchini reinterpretati in chiave elettronica, il gruppo indie degli amici dell’Erasmus e i consigli assurdi del sito più infognato dell’internet. Niente, ero solo nel mio monolocale come non lo sono mai stato. George Orwell diceva che i libri che più ci piacciono in realtà sono quelli che parlano di qualcosa che già conosciamo, quelli che parlano di noi, forse è così anche per i dischi, ed è per questo che Serenata Indiana di Tigri mi ha conquistato come nessun altro in questo periodo di sovrabbondanza.

Un nuovo capitolo definitivo per il progetto indie-pop da Milano che vuole indagare sulle varie declinazioni dell’amore. Il titolo dell’album è rubato da una poesia di Eugenio Montale che parla della corrosione dei rapporti umani quando vengono insidiati da ciò che non ci conosce. analizza la relazione uomo-donna e la spersonalizzazione delle identità che sorge nei rapporti. 8 brani (+1 interludio strumentale) che ruotano attorno al tema dell’amore nelle sue svariate declinazioni: sacrale, casuale, illusorio, salvifico, distruttivo, totale. È il tentativo di emergere dal chiaroscuro che l’amore evoca e al tempo stesso il desiderio di abbracciarlo.

Quello di Tigri è un mondo patinato che nasconde la tristezza più profonda del mondo, un mondo sospeso dalla pandemia dove una voce rauca ci conduce all’interno di ciò che non vorremmo mai vedere, i patetici individui che siamo tristemente diventati: l’amore che potrebbe salvarci è un sentimento complesso e troppo vario da poter accogliere, e Tigri non fa che raccontarcelo nelle sue 9 personalissime tracce che lui stesso descrive come un riassunto delle cose che non potevo dimenticare. E Serenata Indiana diventa quindi un manifesto generazione per tutti noi poveri stronzi, che siamo in stasi, ad aspettare.

Passerà un po’ prima che riesca a liberarmi da questa serenata indiana.

CM

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Cosa c’è nella camera di UNO

24 ore è il debut single di UNO per Epic Records Italy / Sony Music Italy, disponibile in digital, streaming e radio dal 3 dicembre. Prodotto da Alessandro Landini e Walter Babbini, il brano parla di una relazione dove entrambi i partner non riescono a lasciar andare un rapporto che non funziona più, nonostante sappiano porti solo a delle conseguenze negative. Tutti i discorsi non fatti, gli effetti del silenzio e delle parole mai dette: sono tante le parole che non diciamo ogni giorno, che la paura o l’orgoglio bloccano sulla punta della lingua. Paura del giudizio, paura di non saper gestire le conseguenze, paura di ferire.

Siamo stati in camera sua per l’occasione, ed ecco cosa ci ha mostrato!

La mia chitarra è sempre stato il buco nero dove entro del tutto ogni volta che faccio musica.
Passavo e passo tuttora tantissime ore suonando e cantando pezzi.

La mia piccolissima collezione di libri che piano piano cerco di allargare.
Passo moltissimo tempo a leggere,è molto produttivo soprattutto per la scrittura successivamente.
Mi aiuta molto con la creatività per lo scrivere e riflettere.

Il mio pc oramai è un compagno fidato che mi accompagna da un po di anni.
Dentro questo computer c’è ancora la primissima canzone che abbia scritto.
Lo uso tutt’ora per registrare nuovi pezzi e lavorare su nuove idee

Il mio microfono che durante la quarantena mi ha salvato in quanto sono riuscito comunque a lavorare sui pezzi nuovi e registrare direttamente da camera mia,in quanto non si poteva uscire.

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Per conoscere Gionata dovete comporre un puzzle: la sua musica

Gionata è un cantautore, viene dalla Toscana, non abitiamo vicino e non ci siamo mai visti dal vivo, eppure, ogni volta che ascolto un suo pezzo, mi sembra di essere la persona a cui ha deciso di raccontare sinceramente la sua vita, entro in contatto realmente con quello che sto ascoltando. Durante quest’intervista provo a capire il perché e, chiacchierando, mi dice che fa quello che fanno tutte le persone che scrivono, dalle canzoni al diario segreto: si mette a nudo. Ci rifletto ed è vero, lo sento così vicino perché le sue canzoni sono sincere. Tornato dopo due anni dal suo primo Album, L’America, a metà novembre pubblica tre brani nello stesso giorno, Torno subito, Pizzeria Ex Cinema e Mal di mare. Una ventina di giorni dopo esce un altro singolo, il suo primo featuring: Il contorno, con Jesse The Faccio, noto nella scena musicale italiana soprattutto per le sue sonorità lo-fi e l’abilità nella scrittura semplice ma efficace. Ascoltando i quattro pezzi, è chiaro che sono in qualche modo collegati: raccontano delle situazioni passate, sono sinceri, parlano dell’abilità di guardarsi dentro e superare così dei blocchi o dei momenti non particolarmente facili. Il contorno, per esempio, racconta di un rapporto tossico, in cui l’autore si sente solo, usato, e si annulla per l’altra persona. Nel momento in cui riesce a dirlo a sé stesso inizia, però, il suo sforzo per tirarsene fuori. E la bellezza del pezzo è proprio nella presa di consapevolezza condivisa con tutti quelli che lo ascoltano. Come nelle sue canzoni, in questa intervista Gionata ci parla del suo umore, della sua musica e di come la solitudine diventa spesso utile per liberarsi delle cose che ci fanno stare male.

Ciao Gionata! Prima di tutto, come stai e come ti senti dopo l’uscita di quattro tuoi pezzi nuovi?

Ciao Marika, ultimamente sto abbastanza bene, grazie.

Ci sono i soliti alti e bassi quotidiani ma essere tornato a condividere musica con le persone mi ha aiutato a uscire gradualmente da un periodo buio. Spero che anche per te e per la redazione di Futura 1993 vada bene, so che è dura per tutti ed è importante non sentirsi soli in questo periodo.

A parte il tour interrotto a causa del primo lockdown, mi sembra che gli ultimi due anni non abbiano bloccato la tua vena artistica e la necessità di scrivere. Dal 2020 hai scritto soprattutto cose nuove o maggiormente ripensato e modificato testi vecchi? E com’è stato in questo periodo il tuo approccio alla musica e alla scrittura?

Ho avuto un momento di blocco, ammetto che non sapevo nemmeno se avrei continuato a pubblicare canzoni, ero proprio giù di morale.

Fortunatamente ho sfruttato questo malessere per riprendere in mano gli strumenti e scrivere, avevo così tanto da dire che sono arrivato dal mio discografico (che mi segue molto e mi ha aiutato nei periodi difficili, spronandomi) con una trentina di canzoni e decidere quali tenere non è stato semplice. Alla fine, ho scelto di scartare le cose più vecchie, era ora di lasciare andare il passato. Come sempre, canto ciò che vivo, quindi ho mantenuto l’aspetto autobiografico, cercando di toccare emozioni e sensazioni che condivido con la mia generazione, come il concetto di diventare adulto, di assumersi delle responsabilità, di prendere delle decisioni e di affrontare i cambiamenti, che tanto ci fanno soffrire quanto ci permettono di crescere.

A proposito di pezzi, Il contorno è il tuo ultimo singolo ed è anche il primo con un featuring. Quando l’hai scritto e come nasce?

Uno dei pochi brani che appartengono a un passato relativamente lontano. Lo scrissi nel 2017 e doveva far parte del mio disco d’esordio, ma alla fine lo scartammo perché non riuscii a trovare un ritornello giusto. Però mi piaceva allora tanto quanto mi piace adesso, il giro di accordi è figo. Durante il primo lockdown, quando tutti noi facevamo videochiamate lunghe, noiose e bevendo l’inverosimile (chi non l’ha fatto?), venne fuori l’argomento parlando con Jesse e gli mandai la canzone, chiedendogli, a perditempo, se gli andasse di trovarci un ritornello. Un anno dopo venne a Milano e mi scrisse. Dal momento che pioveva restammo in casa da me e dopo qualche birretta ci mettemmo a suonare. In una giornata l’abbiamo scritta e registrata.

Quindi così hai capito che Jesse the Faccio poteva essere l’artista giusto per riempire quel ‘ritornello vuoto sulla batteria’…

Jesse ha molte idee, sa adattarsi agli altri senza perdere il suo stile. Ho sempre apprezzato la sua musica e mi sono fidato, sapevo che avrebbe trovato qualcosa di figo e vicino a quello che volevo esprimere, veniamo da realtà simili e anche la sensibilità artistica si sposa bene.

Come si realizza e come si smette di essere solo ‘un contorno’ in un rapporto e quindi nella vita di un’altra persona?

È difficile, ma non impossibile. Anzitutto, secondo me, bisogna saper ascoltarci: capire i nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri valori e comprendere se sono affini alle persone di cui ci siamo circondati. Spesso ci facciamo prendere dalla paura di perdere una figura vicina a noi e ci adattiamo a lei per non rinunciare alla sua compagnia, ma trovo che sia non solo sbagliato, ma irrispettoso verso noi stessi. Quando capita di rinunciare a noi è perché siamo fragili, veniamo da un periodo duro e siamo insicuri, ma ciò non deve compromettere la nostra salute mentale e dovremmo cercare di ascoltarci sempre, per questo è importante trovare durante la settimana dei momenti per rimanere in solitudine, anche semplicemente per fare una passeggiata e stare in compagnia solo dei nostri pensieri.

Molto passato e soprattutto l’abilità di guardarsi dentro collegano tematicamente le nuove canzoni, da Torno subito a Il contorno. Immagino che per un cantautore non sia facile mettersi a nudo così tanto. Credo, però, che sia l’autenticità a rendere credibile e apprezzato il tuo lavoro e quindi, in questo caso, il gioco vale la candela. Hai a che fare con la sensazione di sentirti ‘scoperto’? E come la affronti?

Ti ringrazio, fa sempre piacere sapere che il proprio lavoro è apprezzato, anche se penso che la scrittura debba venire da un’esigenza e non da una ricerca di approvazioni. Se piace tanto meglio, ma, dal momento che questo è un lavoro “delicato”, è bene ricordarsi ogni giorno perché lo si fa, per non rischiare di arrivare a inscatolare emozioni e venderle come verdura al mercato. Quando scriviamo (uso il plurale perché mi riferisco anche a chi scrive una pagina di diario o dei pensieri sulle note del cellulare) ci mettiamo sempre a nudo altrimenti non avrebbe senso, è un po’ come parlare con lƏ psicologƏ o psicoterapeutƏ (spero di aver utilizzato bene lo schwa): se dicessimo menzogne staremmo solo spendendo soldi ed energie a vuoto e non servirebbe a niente. Quindi sì, mi sento scoperto perché, soprattutto con le ultime canzoni, ho toccato temi profondi e delicati, ma non ho paura: la mia musica a volte è come un puzzle e solo chi ha voglia di comporlo può conoscermi veramente, instaurando un dialogo con me che vada oltre il semplice “che lavoro fai?”.

Questi nuovi pezzi sono tutti più orientati verso una produzione lo-fi rispetto a quelli del primo album, L’America. Come mai questa scelta?

Come forse dissi già in passato in altre interviste, per me L’America è stato un esperimento: volevo capire se sarei riuscito a scrivere canzoni pop. Una volta constatato che sì, so scrivere canzoni pop (lo dico in modo umile ma consapevole, è bene valorizzarsi ogni tanto, senza arroganza ovviamente), ho deciso di tornare al mio background musicale, più sporco e con più chitarre (la mia figura di riferimento, sia come gusti musicali che come estetica, è sempre stata Syd Barrett). Devo ammettere di esser stato fortunato, perché questa modalità di lavoro mi ha permesso di risparmiare risorse economiche e mi ha dato l’opportunità di mettermi in gioco, registrando tutto in camera mia e seguendo la produzione in prima persona, con i miei tempi. Ho imparato tanto e vorrei continuare con questa modalità anche in presenza di major e maggiori risorse economiche.

A proposito, ci sono stati altri artisti, canzoni o album che ti hanno particolarmente ispirato per la produzione musicale dei brani?

Durante il periodo di scrittura e registrazione ho ripreso i vecchi ascolti, quelli che mi hanno segnato e che si avvicinano di più al mio gusto musicale: in particolare AM degli Arctic Monkeys, Is This It degli Strokes e gli ultimi due dischi dei Phoenix, a cui si sono aggiunti alcuni artisti più recenti come Dayglow (l’album di riferimento è Fuzzybrain).

Potrei citare altra roba, tutta internazionale (non ho praticamente ascoltato niente di italiano): Castlebeat, The Maccabees, Roar, Temples, La Femme, Tame Impala, Metronomy, Boy Pablo, Mac DeMarco, Unknown Mortal Orchestra.

Come mai l’idea di far uscire tre canzoni nuove nello stesso giorno? Ci sarà un album che conterrà questi pezzi o hai altro in mente?

La risposta a questa domanda te la darò quando ci vedremo ai concerti perché ci devo ancora pensare. È venuto fuori tutto a caso per quanto mi riguarda: c’erano diverse opzioni e quella di tornare dopo 2 anni con 3 canzoni insieme mi sembrava la più carina.

Vorrei mettere insieme tutte le canzoni che usciranno in una raccolta ma sono tante e non so ancora se saranno inserite all’interno di un disco. Mi sono concentrato così tanto sul contenuto che ho dimenticato la forma, fortuna che ci sono le etichette discografiche che ci pensano.

Passiamo allora ai concerti: ce ne sono in programma? Dal vivo pensi di suonare anche pezzi che non sono ancora usciti?

Ne ho fatto uno pochi giorni fa, il primo dopo quasi due anni di silenzio. Ero chitarra e voce e mi ci sono volute due canzoni per sbloccarmi un po’, ma alla fine è andata molto bene.

In quell’occasione ho fatto pezzi sia del primo disco che nuovi e penso di continuare così, magari con un arrangiamento diverso.

Al momento non so dirti cosa riserva il futuro, sono appena tornato, ma so che il mio team sta lavorando bene per la primavera/estate e ci vedremo in quel periodo. La cosa di cui sono più sicuro è che non suonerò mai più Frigorifero, lo dico adesso così non colgo impreparato il pubblico. Non mi vogliate male, ma non la sento nemmeno più mia.

Per il momento vi saluto, ci vediamo in giro! Ah, P.S.: mi trasferisco, dall’anno prossimo mi troverete a Bologna. Ciao!

Intervista di Marika Falcone

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Internazionale

C’è sempre una via d’uscita: Jesse The Faccio racconta il suo nuovo EP “Le cose che ho”

I periodi di lockdown a cui ci ha costretti questo maledetto virus hanno rivoluzionato un po’ in tutti il rapporto con l’ambiente casalingo. Alcuni, mi sentirei di dire una minoranza, si sono accorti che a casa non si sta poi così male, anzi forse si sta anche meglio che fuori. Ma per tanti, mi sentirei di dire la maggioranza, la casa, da luogo di riposo e di riparo, si è fatta gabbia da cui evadere, culla di emozioni e pensieri negativi. E, inevitabilmente, questo effetto è stato ancor più forte in chi un rapporto complicato con la casa ce l’aveva già prima che fosse obbligatorio per legge starci chiusi dentro.

È il caso di Jesse The Faccio, che dai mostri con cui ha convissuto nel periodo di lockdown della primavera del 2020 ha fatto uscire il suo lavoro forse più intimo e maturo, il nuovo EP Le cose che ho. Quattro brani in cui il cantautore padovano si mette a nudo con coraggio, affrontando tematiche profondamente personali. L’abbandono, la solitudine, la depressione, la dipendenza, l’amore, la paranoia: Jesse non ci gira più intorno e va dritto al punto, scavando a fondo, spiegandosi in maniera esplicita e diretta,intensa ed efficace. Ma va detto che, anche se nasce dal dolore e di dolore parla, questo EP lascia spazio anche alla speranza.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Jesse the Faccio per farci raccontare meglio il suo nuovo progetto e in generale il momento che sta vivendo. Ne è uscita l’intervista che trovate di seguito. Buona lettura!

Ciao Jesse! Le cose che ho, il tuo nuovo EP, è fuori: come ci si sente?

Decisamente meglio. Non vedevo l’ora ed ero in ansia anche per questo. Come per molti adesso a me pare sia già finito il suo tempo ma son felice di poterlo portare in giro.

L’EP appare in generale come un prodotto più intimo e personale rispetto ai tuoi lavori precedenti. Anche solo i nomi dei brani che lo compongono, in cui spesso campeggia una prima persona singolare (Le cose che ho, Credo mi vedi, Come posso), sembrano suggerire che i riflettori siano puntati, più che sull’esterno, sull’interno e sul suo rapporto con l’esterno. Sei d’accordo, Le cose che ho ci racconta effettivamente un lato più intimo di Jesse the Faccio?

Sono pienamente d’accordo. Tutto il lavoro è proiettato verso l’interno, mi sono descritto in totale libertà, raccontato dei mesi e del rapporto con me stesso in quel periodo. Avevo forse l’esigenza di scavare più dentro di me anche nella musica, sicuramente è il mio lavoro più intimo.

È vero, la prima persona singolare fa da protagonista. Ma è anche vero che c’è sempre (o quasi) un interlocutore, una persona che è oggetto od origine di quei pensieri e quelle pare che trovano espressione nei vari brani. Quanto è generico quell’interlocutore? Avevi in mente una persona in particolare?

L’ interlocutore chiaramente c’è e per me è molto nitido, chiaro in mente. Diventa generico quando chiunque ascoltando si rivede in parte o in totale in quello che dico, in quelle sensazioni. Sia che siano rivolte verso se stessi o verso qualcun altro.

Ogni brano dell’EP ha un suo video e in ogni video c’è una costante: tu, nudo e alienato, in una qualche stanza della casa. Qual è stata l’importanza della casa nella nascita e nello sviluppo di questo progetto? Il lockdown ha giocato un suo ruolo?

Assolutamente, nasce tutto dal primo lockdown nazionale che ho passato come tutti appunto in casa, ambiente per me non sempre facile, anzi, e trovarmici costretto era molto difficile. Per questo ho anche voluto rappresentare la casa nei quattro video che accompagnano i brani, chiaramente non la casa accogliente ma quella da cui non vedi l’ora di scappare. La difficoltà di rimanere in casa e la mia situazione personale sono state la scintilla per tutto il lavoro.

Insisto sui video, perché mi sembrano restituire molto bene il mood generale dell’EP. E osservo che, quando ci sono altre persone oltre a te, l’interazione sembra sempre fredda. O addirittura, come nel caso di Che resta, tu la cerchi ma nessuno sembra vederti. È questa una delle chiavi di lettura del progetto, il muro che c’è fra te e gli altri?

Più o meno sì, o meglio forse il muro che mi metto io tra me e gli altri non riuscendo ad esprimermi. Circondarmi di persone per me è sempre stato molto importante, ma molto spesso anche se magari all’apparenza non sembrava mi sentivo comunque solo e in qualche modo distaccato. Ho cercato di accentuare questa cosa, anche per far capire meglio i testi dell’EP. Trovandomi 20 mesi fa effettivamente solo, ho ragionato molto su questo tipo di chiusura che dò per primo a me stesso e che forse non mi fa vivere in completa serenità neanche con gli altri. Ho cercato di esorcizzarla concentrandomi su questo lavoro.

Come posso (collo), brano di chiusura dell’EP, sembra per certi versi dare un barlume di speranza, indicare che forse c’è una via d’uscita da quella casa che non sai più se sia rifugio o gabbia. Anche qui ci aiuta il video, in cui finalmente, dopo alcuni minuti in cui ti vediamo nella tua camera a fumare, nudo e solo, sembra esserci una decisione improvvisa: quella di vestirsi e uscire, di evadere. Va inteso come un messaggio di speranza? Ti sembra che ci sia, questa via d’uscita?

Esattamente, sono sicuro che la via d’uscita ci sia sempre, come nel precedente disco mi sono accorto di essere abbastanza affezionato al concetto di speranza in tutto tondo. In Come posso (collo) la voglia di uscire dalla sensazione di solitudine parte forse inconsciamente già dall’arrangiamento del brano, dove il lungo strumentale prima confuso e poi sempre più soave e nitido evoca già quella sensazione di libertà. Anche il messaggio è una sorta di incentivo a reagire, a muoversi, anche se non si è propriamente convinti di se stessi o di quello che c’è fuori.

E a livello di ascolti, di influenze prettamente musicali, c’è qualcosa che ti ha accompagnato e influenzato nel periodo di stesura dei brani de Le cose che ho?

Sì, sicuramente e si parla di comfort zone musicale. Il cardine è In Rainbows dei Radiohead un po’ ovunque, ma sopratutto nel brano di chiusura. Per il resto c’è Battisti con Anima Latina, c’è il mio sempre amato Alex G e c’è una curiosità diventata mezza ossessione per Lil Peep e il suo modo di fare lo-fi, totalmente distante dal mio. Queste sono state le ossessioni da marzo a giugno 2020. Praticamente le uniche cose che ho ascoltato in quei mesi.

Sei nella playlist editoriale di Spotify “Rock Italia” con Che resta. La senti adeguata, l’etichetta di “rock” per la tua musica e per questo progetto in particolare?

(Ride, ndr) Assolutamente no, almeno a livello di produzione. Non sono un fan delle playlist e di quel modo di ascoltare musica, ma so che piacciono e forse a questo punto sono pure importanti, quindi rispetto massimo e son sinceramente felice di esserci dentro anche con un brano così. Live effettivamente pare (almeno per ora) venga più punk!

E quella di “Italia”? La tua musica da sempre è marcata da un sound profondamente internazionale, dunque viene da chiedersi: quanta Italia c’è nella musica di Jesse The Faccio, secondo Jesse The Faccio?

Effettivamente ce n’ è molto poca. Amo la nostra lingua e mi piace scrivere in italiano, però per il sound sono decisamente proiettato su altro. Quello che “va”, a parte qualche caso, non mi fa impazzire devo dire, ma ci sta che sia così. C’è sicuramente molto di più del passato, la musica italiana cantautorale diciamo “classica” mi accompagna sempre.

Nell’ultimo weekend di novembre c’è stata la festa di Dischi Sotterranei, la tua etichetta, che in un post racconti sia andata “fin troppo bene”. Quanto è stato importante tornare a suonare e farlo assieme a quella che definisci come “la famiglia più grande e bella d’Italia”?

Fondamentale, chi c’era ha provato (credo) la stessa sensazione, ovvero che si può tornare a vivere, che esiste un sottosuolo musicale artistico che può fare ancora queste cose. Le band esistono ancora e hanno voglia di venire fuori e farsi sentire, le chitarre non sono morte. E poi tutta l’emozione dopo due anni effettivi di stop e limitazioni. I ragazzi di Dischi Sotterranei sono effettivamente la mia famiglia, lo sono al 100%. Sedici band in due giorni non so chi può permettersi a ora di farlo. Siamo tutti molto orgogliosi di quello che si è riuscito a fare quel weekend.

La festa di Dischi Sotterranei è stata una prima occasione per tornare a suonare, ma hai da poco annunciato anche un tour invernale per Le cose che ho. Insomma, si riparte! Sei pronto? Che risposta ti aspetti?

Prontissimo, super carico con nuovi elementi in band e veramente molta voglia di uscire. Sì sono uscite le prime date adesso, anche a seconda delle disposizioni dello Stato si capirà come continuare fino a (spero) arrivare a una bellissima e intensissima estate.


di Pietro Possamai       

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