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Fuori dal sepolcro, corre Lazzaro

Devo dire che ho provato fin da subito una certa simpatia per Lazzaro, artista dal nome certamente particolare ma dalla musica ancor più “brillante”: a differenza del personaggio miracoloso, quella di Lazzaro pare una resurrezione avvenuta non per miracolo, ma attraverso un percorso di “auto-consapevolezza” che sembra averlo portato, oggi, a nuove idee, nuove forme.

Forse è da queste rinnovate consapevolezze che deriva la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di “sacerdotale”, di mistico quando comincia “Fears”, con quegli avvolgenti sintetizzatori che lasciano lievitare il brano con una certa forza centrifuga: il testo prende forma, dopotutto, proprio negli spazi che l’orchestrazione lascia al cantato, libero di inalberarsi verso picchi e profondità estreme.

Una cosa simile, in effetti, accade anche in “Oro”, il secondo singolo del tenebroso toscano: se in “Fears” il focus s’incentrava sul concetto di paura (e delle sue relative estensioni), in “Oro” la penna di Lazzaro cuce e taglia il significato di “apparenza”, con una stoccata ben precisa e diretta ad una contemporaneità che, oggi più che mai, ha un disperato bisogno di ritrovarsi proprio al di fuori dell’alone mistificatorio (e affatto mistico) dell’apparenza. 

La scrittura di Lazzaro affascina, è inutile negarlo: sento il richiamo di quella epopea indipendente che in Italia ha trovato i suoi massimi esponenti nei CCCP, ma allo stesso tempo c’è qualcosa nelle scelte “sonore” che richiama agli ambienti del club europeo, con un certo gusto quasi berlinese nella scelta delle atmosfere dei momenti più “trance”.

Vediamo cosa ci riserverà il futuro. Per ora, il presente è vivo e vegeto, si è alzato e cammina.