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La psicanalisi on the road a cura di Henry Beckett | Recensione

Henry Beckett è uno di quei nomi che per un po’ aveva rimbalzato nell’underground milanese, nutrendosi di tutti quegli ascoltatori dai gusti filo-americani che cercavano quei concertini che sembrano usciti da un romanzo di Charles Bukowski o Jack Kerouac. Ed è assurdo come chi era stato anche al Miami di qualche anno fa, poi sia sparito dalla scena milanese, per poi riaffiorare con un disco bellissimo, perdendo però negli anni tutto quel pubblico che avrebbe potuto apprezzarlo. Henry Beckett, da quel lontano 2017 in cui si era imposto tra i songwriter di Milano, sembra aver voluto iniziare di nuovo, da zero, con nove tracce contenuto in questo “Riding Monsters“.

Ed immaginatevi proprio così, su un treno con tutta la vostra roba, uno di quei treni vecchi che ci aveva fatto vedere Jim Jarmush in Dead Man, che attraversano gli Stati Uniti e tutte le situazioni più assurde che possiate immaginare. Questo disco è un viaggio introspettivo e autobiografico, il cui intento è quello di scarnificare un morto fino a trovargli l’anima: una sofferenza passata, una rinascita, Bruce Springsteen, Ryan Adams e tutta quell’estetica legata alla Beat Generation che i ragazzi come Henry Beckett, maglietta bianca e stivaletti, non riescono proprio a togliersi di dosso.

Un disco che è giusto che sia uscito adesso, in queste giornate confuse dove un giorno usciamo con il cappotto e la sciarpa, e quello dopo prenotiamo le vacanze al mare, in questi momenti dove lavoriamo tutto il giorno, ma viviamo il ponte del 25 aprile come l’unica fuga dalla realtà che abbiamo a disposizione. In molti chiedono ad Henry Beckett, che nella vita reale là fuori si chiama Raffaele, come mai usi l’inglese per la sua musica, ma il punto è proprio questo: essere estranei, essere diversi, essere liberi lavorando davanti al proprio computer, sentirsi nel Wyoming anche se siamo sul Lago di Garda, l’inglese ci porta in posti lontani, ci fa scappare così lontano che neanche riconosciamo dove siamo arrivati. L’italiano ci avrebbe fatto sentire a casa, ma qui some people get lost.

In sintesi: un disco da ascoltare con tutti gli amici che non si sono mai legati all’indie italiano, che odiano Calcutta e che non vi hanno mai accompagnato ad un concerto. Un disco per guardarsi dentro e rinascere, un disco per sentirsi abbastanza bene da poter ricominciare, un po’ come ha fatto Henry Beckett a cui auguriamo il meglio.