Certe canzoni non hanno bisogno di spiegarsi, ti si piazzano addosso come una sensazione che conosci già.
“falene”, il nuovo singolo di acquachiara, è così: una traccia che non urla ma resiste, che balla anche quando la voce trema. Dopo aver raccontato gli altri, stavolta Chiara parla di sé. Senza filtri, senza grandi metafore, solo con la voglia di alzare un po’ la voce – o almeno provarci.
In questa intervista, acquachiara ci racconta il dietro le quinte di un brano che non pretende di salvarti, ma forse può farti compagnia quando ne hai più bisogno.
Ciao acquachiara! Per la prima volta metti al centro te stessa, lasciando da parte le storie d’amore. Cosa ti ha spinto a questo cambio di direzione? È stato liberatorio o ti sei sentita più esposta?
Un po’ tutte e due le cose. Da un lato è stato liberatorio e allo stesso tempo mi sono sentita più nuda, più esposta. Parlare di me, senza scuse e senza ruoli romantici, è stato come guardarsi allo specchio con le luci accese. Però era il momento giusto. Non potevo più rimandare l’incontro con me stessa.
In “falene” si percepisce un desiderio di connessione, ma anche la paura del contatto. Quanto è difficile, secondo te, raccontare i sentimenti senza cadere in cliché? E come fai a mantenere la tua scrittura autentica?
Raccontare i sentimenti senza inciampare nei cliché è una battaglia quotidiana, anche perché i sentimenti in sé sono cliché meravigliosi. Tutti li provano, il problema è trovare un modo tuo per dirli. Io cerco di partire sempre da un’immagine che mi appartiene davvero: un dettaglio, un ricordo, una frase che mi verrebbe da dire anche senza musica. E poi limare, limare, limare… finché resta solo quello che serve. L’autenticità, per me, sta nell’essere precisa. Anche quando parlo di cose universali, voglio che si senta che sono passate da me.
“falene” è attraversata da un’energia quasi contrastante: malinconica nei versi, liberatoria nel ritornello. Come reagisce il pubblico quando la ascolta per la prima volta? Hai già avuto feedback che ti hanno colpita?
La cosa più bella che mi hanno detto è: “mi ha fatto venire voglia di piangere e ballare allo stesso tempo.” Ecco, se riesco a far sentire quella spaccatura lì — tra la voglia di sparire e quella di stare al centro della pista — allora ho centrato il punto. C’è chi si è ritrovato nella fatica di “alzare la voce”, chi in quella sensazione di spaesamento delle prime strofe. E ogni volta che qualcuno si riconosce, è come se la canzone diventasse un po’ anche sua.
Nel brano citi “vecchie canzoni tristi” e usi immagini nostalgiche come la luna, i lampioni, l’asfalto. Che rapporto hai con il tempo e con la memoria nel tuo scrivere? Ti aiuta a capire il presente o a proteggerti da esso?
Credo che la memoria, per me, sia un modo per stare nel presente senza impazzire. Ci torno spesso, ma non per nostalgia sterile: più per orientarmi. Come se rileggere il passato mi aiutasse a darmi un senso oggi. Le immagini che uso, la luna, l’asfalto, le canzoni tristi, sono ancore emotive. Mi ricordano chi sono stata, e mi aiutano a non perdermi anche quando tutto cambia.
Il bisogno di “una mano che ti convinca a ripartire” è un tema molto presente nel brano. Pensi che oggi, tra giovani artistə, ci sia abbastanza spazio per il sostegno reciproco, o prevale la competizione?
Purtroppo una parte di competizione c’è. Ma io continuo a credere (e cercare) nell’idea di una scena in cui ci si solleva a vicenda, anziché sgomitare. Quando trovi quellə artistə che ti ascoltano davvero, che tifano per te anche quando non ci guadagnano nulla, ti accorgi che si può fare. Serve solo un po’ di cura in più, e meno paura. Perché a volte dietro la competizione c’è solo il terrore di non bastare. Tocca ricordarselo.
Hai vinto Music for Change con un brano sociale, mentre in “falene” torni all’intimità. Ti senti più a tuo agio nel racconto personale o in quello collettivo? E in futuro, pensi di unire le due strade?
Mi piacciono entrambe, e in realtà credo che non siano poi così separate. Ogni volta che racconto qualcosa di mio, se lo faccio bene, finisce per diventare anche collettivo. E viceversa: i temi sociali mi toccano proprio perché li sento addosso, li vivo nel quotidiano. “falene” è intima, sì, ma parla anche di una generazione che non sa dove andare, che si sente fragile e invisibile. Il mio sogno è unire sempre più le due strade, fare canzoni che siano confessioni ma anche specchi, dove ognuno possa riconoscersi almeno un po’.