“Santa Madre dell’Umanità”, il nuovo singolo di Samuela Schilirò, cantautrice di origini goriziane e siciliana d’adozione. Nel brano, l’artista sperimenta sonorità differenti rispetto alle precedenti produzioni, attualizzando suoni retrò anni ’80 ai giorni nostri. Noi le abbiamo chiesto di raccontarci le sue 5 cose preferite!
“I GOT DEM OL’ KOZMIC BLUES AGAIN MAMA!” (J.Joplin)
Album indispensabile nella mia discoteca. Donna fuori dalla gabbia.
LE CHITARRE
Che siano pure o contaminate, l’importante è che ci siano.
“LA VITA È ALTROVE” (M.Kundera)
Quando l’ansia esistenziale è talmente tanta da costringerti a evadere dalla realtà inventandoti un personaggio vincente e cinico, in cui identificarti. Non mi sembra così distante dagli avatar del ventitreesimo secolo. Incapace di vivere il presente e la vita, quella vera, il poeta muore giovane.
I GATTI
Geniali sensibili audaci liberi e divertenti. Non li ho citati nel mio nuovo singolo (ma l’ho fatto in un’altra mia vecchia canzone) solo perché spesso sanno essere molto più umani di noi esseri umani.
I DOLCI
Se l’umanità si addolcisse un po’, il mondo sarebbe un posto migliore.
Nuelle e Attilio sono una di quelle coppie che messi insieme possono solo fare scintille, noi li abbiamo conosciuti con il loro singolo d’esordio “Dimenticare un sabato“, fuori oggi per Tippin’ Factory. Non vedevamo l’ora di svelare anche a voi quali sono le loro cinque cose preferite!
“Brighter Wounds” dei Son Lux
“Ferite luminose”, come le nostre, che quest’album ha alleviato, insegnandoci inoltre un nuovo modo di intendere la creazione della musica con la loro incredibile originalità.
“Sull’Amore” Hermann Hesse
Libro dolce, delicato e assolutamente variegato nei temi. Una lettura che fa respirare il cuore.
Complicarsi la vita
Veramente, non un’altra parola.
Le parole
Strumento incredibile, che permette a tutti di raccontarsi, esprimere un’emozione, litigare, fare guerre, fare pace. Le parole hanno capacità incredibili, sembrerà banale ma è assolutamente vero che delle parole fanno più male del dolore che puoi infliggere fisicamente. La motivazione è che il dolore fisico colpisce il corpo, le parole l’anima. Ovviamente preferiamo usare le parole per fare del bene, per salvare, per amare.
Le storie dietro la musica
La musica piace, ma approfondire quello che c’è dietro la musica, il perché di determinate cose…quello è assolutamente affascinante. Da creatori di musica è sempre bello trovare punti di contatto tra la propria storia e quella degli altri.
Oggi abbiamo il piacere di ospitare Marco Galimberti, in occasione della sua nuova uscita “Ero solo un bambino”. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao, Marco benvenuto! Come stai? Soddisfatto di questa nuova uscita?
Ciao!!! Grazie per l’invito!!! Tutto bene dai, nonostante il periodo non sia proprio dei migliori.
Sì, sono soddisfatto di questa nuova uscita, perché era una canzone che avevo nel mio pc da tanto tempo ormai e finalmente può arrivare alle orecchie di tutti. Sta avendo dei buoni risultati e soprattutto tanti commenti positivi, questo mi rende molto felice. Con questo brano sono arrivato terzo al Premio Mia Martini e ho vinto il premio per la miglior interpretazione.
Che emozioni speri di suscitare in chi ascolta il pezzo?
Spero che ascoltando il mio brano l’ascoltatore riesca ad immedesimarsi perché credo abbia un testo ed un significato abbastanza universale. Penso che di base la canzone si porti dietro un filo di nostalgia e di malinconia, ma anche voglia di rivalsa e perseveranza nel seguire i propri sogni.
A quali artisti italiani o internazionali ti sei ispirato nella tua musica?
I miei artisti italiani preferiti e dai quali cerco di carpire qualche segreto sono Fabrizio Moro, Ultimo e Cesare Cremonini. Potrei citare anche Renga e i cantautori del passato: da De Andrè a Dalla, passando per Baglioni e Venditti. Non ascolto tanta musica estera contemporanea.
Qual è il messaggio di Ero solo un bambino?
Tutti noi abbiamo sogni e speranze che durante il nostro percorso cerchiamo di raggiungere e la canzone parla proprio di questo. Soprattutto i sogni che si hanno da bambini sono i più veri e spesso commettiamo l’errore di arrenderci davanti alle difficoltà facendo, di fatto, un torto al bambino che siamo stati.
Com’è stato il processo di scrittura del brano?
Scrissi il testo ormai un paio di anni fa in un momento in cui pensavo di abbandonare la mia, seppur breve, carriera musicale. Una sera è nato il testo di questa canzone, dopodiché è rimasto “in cantina” per qualche tempo. A fine 2020 dall’incontro con Luca Sala, autore che ha scritto per Emma, Tiromancino e altri grossi nomi della musica italiana, è nata la musica del brano fino al momento della registrazione delle voci che ha suggellato la creazione della canzone.
Sono giorni difficili dove non faccio altro che passare da un disco all’altro alla ricerca di qualcosa che mi colpisca davvero. Ho la casa che è un casino, e non faccio altro che finire su dischi indie dell’est Europa, sperimentazioni incredibili, mondi inascoltabili, sono in un periodo di crisi mistica dove nulla sembra appassionarmi e, ve lo dico sinceramente, son finito a cercare l’assurdo, l’ambient rumena e i canti popolari marocchini reinterpretati in chiave elettronica, il gruppo indie degli amici dell’Erasmus e i consigli assurdi del sito più infognato dell’internet. Niente, ero solo nel mio monolocale come non lo sono mai stato. George Orwell diceva che i libri che più ci piacciono in realtà sono quelli che parlano di qualcosa che già conosciamo, quelli che parlano di noi, forse è così anche per i dischi, ed è per questo che Serenata Indianadi Tigri mi ha conquistato come nessun altro in questo periodo di sovrabbondanza.
Un nuovo capitolo definitivo per il progetto indie-pop da Milano che vuole indagare sulle varie declinazioni dell’amore. Il titolo dell’album è rubato da una poesia di Eugenio Montale che parla della corrosione dei rapporti umani quando vengono insidiati da ciò che non ci conosce. analizza la relazione uomo-donna e la spersonalizzazione delle identità che sorge nei rapporti. 8 brani (+1 interludio strumentale) che ruotano attorno al tema dell’amore nelle sue svariate declinazioni: sacrale, casuale, illusorio, salvifico, distruttivo, totale. È il tentativo di emergere dal chiaroscuro che l’amore evoca e al tempo stesso il desiderio di abbracciarlo.
Quello di Tigri è un mondo patinato che nasconde la tristezza più profonda del mondo, un mondo sospeso dalla pandemia dove una voce rauca ci conduce all’interno di ciò che non vorremmo mai vedere, i patetici individui che siamo tristemente diventati: l’amore che potrebbe salvarci è un sentimento complesso e troppo vario da poter accogliere, e Tigri non fa che raccontarcelo nelle sue 9 personalissime tracce che lui stesso descrive come un riassunto delle cose che non potevo dimenticare. E Serenata Indiana diventa quindi un manifesto generazione per tutti noi poveri stronzi, che siamo in stasi, ad aspettare.
Passerà un po’ prima che riesca a liberarmi da questa serenata indiana.
Pietro Gandetto è nato ad Alessandria, ma vive ormai da diversi anni a Milano dove pratica la professione di avvocato. L’abbiamo incontrato lo scorso dicembre al Bar Basso, dove abbiamo preso parte all’evento di lancio del suo primo EP: “Come in un film”.
Nel freddo dell’inverno milanese è stato un enorme sollievo entrare in quella saletta dal gusto un po’ retrò in cui Pietro ci ha subito accolti come farebbe un vecchio amico indossando una camicia di Lisa Von Tang, realizzata completamente in fibra di petali di rosa. Tra qualche chiacchiera e qualche free drink, ci siamo accorti solo successivamente che al tavolo con noi sedeva anche Malika Ayane. Pietro era tanto stupito quanto noi: un incontro fortuito, nato dal caso quella sera stessa, in quello stesso bar. L’emozione negli occhi del cantautore era tanta, e vi era anche una leggera ansia: di certo qualche ora prima non avrebbe immaginato di doversi esibire davanti a lei. Ma non dobbiamo dimenticare che il nostro Pietro non è soltanto un cantautore emergente, lui è anche un avvocato affermato. Pertanto, sa bene come rimanere sul pezzo anche in situazioni impreviste. Ha raccolto quindi le proprie emozioni, le ha appallottolate nello stomaco nell’attesa che arrivassero gli ultimi invitati, e poi le ha riversate tutte sul microfono.
In quei minuti la sala si è trasformata. L’aria si è fatta improvvisamente frizzante in quella sala leggermente vintage, ed è stato difficile trattenersi dal ballare. L’inverno milanese era ormai lontano, nell’energia di Pietro c’era qualcosa di molto più simile alla primavera ed è un’energia che ci ha conquistati. Il tempo di quattro tracce è volato, ma avremmo potuto tranquillamente assistere ad un intero concerto di un’ora senza mai annoiarci. Il tempo è volato, sì, ma noi siamo felici di aver potuto essere lì, non solo perché abbiamo avuto l’occasione di assistere ad un piacevole concerto serale, ma anche perché abbiamo avuto modo di conoscere un artista tanto passionale quanto umile, e tutti noi sappiamo quanto l’umiltà sia una virtù sempre più rara.
Non ci resta quindi che augurare a Pietro tutto il meglio per la sua futura carriera e non vediamo l’ora di replicare l’esperienza!
Ebbene si, la band dei fratelli Gallagher ci mette tutti d’accordo, siamo figli degli anni ’90, siamo cresciuti con il mito che si poteva partire dal pub di alcolizzati di paese e finire a Knebworth davanti a mezzo milione di persone, sulla prima parte ci siamo, sulla seconda ci stiamo lavorando.
Birra
Abbiamo più volte fantasticato un tour per le abbazie belghe, tra una doppio malto e una rossa corposa, i monaci là sono proprio dei simpatici mattacchioni.
PAul preferisce le IPA, Jolly le bionde e Miky le weiss, ma la birra ci mette inequivocabilmente sempre d’accordo, come dice Homer: “La causa di e la soluzione a tutti i problemi della vita”.
La Federazione Italiana Ginnastica Artistica
Insomma una cosa che piace proprio tanto a tutti noi, che ci è stata d’ispirazione fin dagli inizi, nel bene e nel male ci ha fatto scrivere le nostre canzoni migliori.
Discutere animatamente
Siamo una famiglia, due fratelli di sangue e uno acquisito, cosa fanno i membri di una famiglia di scimmie? D I S C U T U N O A N I M A T A M E N T E!
Più volte siamo stati redarguiti per discutere a d alta voce, animatamente, urlando, perdendo apparentemente il controllo, la seconda cosa che ci ha fatto sgridare di più sono i canti di chiesa urlati sguaiatamente all’esterno dei pub.
La canzone “Giorgio by Moroder” dei Duft Punk
Non fa parte dei nostri gusti musicali come propriamente si potrebbe intendere, ma più volte ci siamo ritrovati in viaggio per un live ascoltando questo pezzo.
Le parole sincere di un artista che ha fatto della sua passione la sua vita, che soprattutto ha avuto un’idea rivoluzionaria, che ha avuto quella luce speciale del genio, ci ha sempre emozionato tanto, sono parole di una poesia straordinaria.
Non sappiamo se avremo mai un’idea altrettanto valida, ma nessuno ci vieta di sognarlo.
Mi piacciono sempre i dischi che sembrano dare inizio a qualcosa di nuovo, in qualsiasi senso. Mi ricordo la prima volta che ho ascoltato un disco degli Arctic Monkeys (forse ero in prima superiore), e sapevo che quel momento avrebbe segnato per sempre la mia vita: avrei preso una posizione musicale, quella alternativa rispetto a quello che ascoltavano tutti gli altri, e avrei portato magliette ridicole con nomi di band che non avevo mai visto dal vivo. Whatever People Say I Am, That’s What I Am Not ha cambiato per sempre le cose, c’è un definitivo prima e dopo. Non so dicendo che Anna Soares centri qualcosa con gli Arctic Monkeys, ma con i cambiamenti sì e i nuovi inizi sì: Anna Soares ha unito definitivamente sesso e musica nel più elegante dei modi, con una sensualità esplicita e mai volgare che mi era sinora sconosciuta. Questo disco mi ha fatto venir voglia di amare, tantissimo, e questa voglia è davvero pericolosa per tutti i nerd davanti al computer che finiscono a leggersi le recensioni dei dischi.
Anna Soares ci porta in un mondo oscuro e vibrante, dove l’elettronica si fonde con i brividi sensuali di parole sussurrate che ci fanno sentire a disagio se, come me, state ascoltando questo disco in pubblico, su un treno diretto alla stazione di Scandicci (Firenze). Mi sento osservato, esposto, in difetto: la sicurezza estrema che Anna Soares si porta dietro con un carisma non indifferente, che ci dà il pieno controllo per avere il controllo su di lei nelle fantasie sessuali che la musica di Sacred Erotic inevitabilmente scatena. La BDSM Music, finora mondo sconosciuto, forse sta qui, nell’immergerci in questo vortice di sensazioni dove siamo completamente sottomessi al volere di Anna Soares che, ossimoricamente, ci dà il pieno controllo.
La cantautrice e producer, madre della BDSM Music, crea un percorso che celebra la sacralità dell’universo sessuale, toccando tematiche come la sapiosessualità, l’ipnosi erotica, dominazione e sottomissione, la potenza dello spirito femminino, la connessione intima che porta all’evoluzione interiore. Ogni brano compone un universo sonoro a sé, toccando trip hop, future garage, elettronica cantautorale, senza mai chiudersi in degli schemi predefiniti, sia vocalmente che a livello compositivo.
Questo disco suona come il sentirsi a disagio in una stanza dove tutti si stanno divertendo, come un sorriso forzato ad una di quelle serate dove avremmo voluto sempre essere presenti, di un mondo lontano e altolocato di cui noi non facciamo parte. Come quella volta che mi ritrovai, sempre al liceo, a bere una birra con Miles Kane e non riuscii a dire una parola, tornato a casa ero comunque l’uomo più felice del mondo. Sacred Erotic è così: un mondo sconosciuto, un nuovo inizio, un nuovo genere musicale, un mondo immersivo che ci fa sentire strani, e bisognerebbe davvero indagare su questa stranezza e che risulta infine bellissimo. Speriamo davvero che possa esserci presto un seguito.
C’era un periodo, nell’immediata post adolescenza, in cui mi ero fissato con i White Lies (no, caspio non c’entra necessariamente con i White Lies, state calmi): tristezza infinita, sintetizzatori, Dr. Martens che mi toglievo solo se dovevo andare a dormire, sguardo languido mentre mi aggiravo nei corridoi dell’università. Insomma, ascoltare i White Lies a ripetizione mi aveva fatto diventare un ventenne triste con la vita in bianco e nero, pochi mesi più tardi mi sono fissato con i Tame Impala e ho cominciato a portare dei pantaloni a zampa d’elefante. Tutto questo per dire che ciò che ascoltava tendeva ad influenzarmi, e se mi fissavo con un gruppo post-punk finivo per deprimermi. Poi son cresciuto, ho preso la mia prima busta paga, ho cambiato casa e non mai più chiesto un autografo o attaccato un poster in camera di una band musicale. Forse è strano, ma come si ama la musica da adolescenti, di un amore esclusivo e totalizzante, è qualcosa che si perde, e non torna più.
Quando ho ascoltato il nuovo EP di caspio (fugit, fuori per Le Siepi Dischi), sono stato male, come stavo male in quelle serate infinite passate a studiare, bombardandomi il sonno con volumi altissimi. Quello di caspio è un mondo elettronico oscuro, dove scorrono parole che scuotono e mi hanno fatto ricordare com’era, quel periodo in cui un disco poteva rovinarti la giornata. fugit è un concentrato brevissimo dove convivono rotture, assoluti e malinconie. Un brutto quarto d’ora per chi pensava di avere una vita monotona che non potesse essere scombussolata da un play su Spotify.
fugit è un’autobiografia con valenza universale, brani che raccontano momenti diversi, generazioni che passano: un tempo che ha cambiato tutte le carte in tavola, un tempo per le decisioni, un tempo che scandisce il ritmo sonno-veglia, un tempo presente e un tempo futuro.Un tuffo nel passato, non nel passato musicale, nel tuo passato che pensavi di aver sepolto dopo anni di maturità e responsabilità: in fondo siamo e rimaniamo adolescenti che ascoltano i White Lies. I brani contenuti in fugit sono eterogenei, confondono generi, sonorità e stile. Sono stati scritti in tempi – ed ecco il tempo che ritorna – diversi.
E l’intento dell’autore è esattamente quello di far percepire all’ascoltatore che ogni cosa ha un suo tempo, un suo momento. La copertina dell’EP rappresenta sia la diversità dei brani, sia l’idea di una stratificazione temporale: è, infatti, lo shot di una bacheca pubblicitaria in cui il tempo ha logorato l’immagine di superficie lasciando intravedere tutte quelle sottostanti, diverse tra loro, sovrapposte, che a loro volta ne erano state la copertina. È lo spaziotempo di un luogo qualunque, in cui il tempo è trascorso lasciando le sue tracce, in cui il tempo è fuggito, lasciando dietro di sé il ricordo di qualcosa che ormai non c’è più e lisciando la superficie per fare spazio a qualcosa di nuovo. Qualcosa come fugit.
caspio ci promette che non è la fine, e non mi rimane che aspettarlo.
Esce venerdì 3 dicembre 2021, per Le Siepi Dischi e in distribuzione Believe, fugit, il titolo dell’ultimo EP di caspio. L’EP interpreta le diverse sfaccettature del concetto di tempo: c’è un tempo che appartiene ad una generazione, un tempo che ha cambiato tutte le carte in tavola, un tempo per le decisioni, un tempo che scandisce il ritmo sonno-veglia, un tempo presente e un tempo futuro. I brani contenuti in fugit sono eterogenei, confondono generi, sonorità e stile. Sono stati scritti in tempi – ed ecco il tempo che ritorna – diversi.
E l’intento dell’autore è esattamente quello di far percepire all’ascoltatore che ogni cosa ha un suo tempo, un suo momento. La copertina dell’EP rappresenta sia la diversità dei brani, sia l’idea di una stratificazione temporale: è, infatti, lo shot di una bacheca pubblicitaria in cui il tempo ha logorato l’immagine di superficie lasciando intravedere tutte quelle sottostanti, diverse tra loro, sovrapposte, che a loro volta ne erano state la copertina. È lo spaziotempo di un luogo qualunque, in cui il tempo è trascorso lasciando le sue tracce, in cui il tempo è fuggito, lasciando dietro di sé il ricordo di qualcosa che ormai non c’è più e lisciando la superficie per fare spazio a qualcosa di nuovo. Qualcosa come fugit.
1. mai 2. un attimo 3. bilico 4. domani 5. non è la fine
BIO: caspio vive a Trieste, città di confine che si si sviluppa sul, intorno e grazie al mare. Suona da sempre quasi tutto e da subito. Nel 2019 esce Giorni Vuoti, il primo album maturo, sfogo di anni di soffocamento, di inibizione. La musica di caspio spazia tra l’elettronica, il trip-hop, il rock, il pop, con influenze anni ’90, in una veste completamente nuova e attuale. Ripredendo un verso di uno dei suoi brani, caspio è “perennemente fuori, non di tendenza”, anche se la sua musica può arrivare a chiunque. Rockit ha detto di caspio che “il suo stile e il suo pensiero rimangono impressi facendo riecheggiare la voce di un artista che ha qualcosa da dire”. Con l’ultimo EP, fugit, caspio ha davvero qualcosa da dire perché ci mette anche in mezzo un argomento che gli sta a cuore, che permea la sua musica e i suoi testi: il tempo.
Demoni è un album di dieci brani per scoprire una dimensione completamente nuova della band che, messa da parte l’istintività del primo album, riesce a traghettare l’ascoltatore in un viaggio in bilico tra ragione e sentimento, spaziando tra ritmiche incalzanti, arrangiamenti cangianti e suadenti melodie. Mi ritrovo qui, superati i 30 con questo disco nelle cuffie, che mi ha fatto stare male più del dovuto, con un album subdolo e suadente che ti culla con belle linee di chitarra e testi rassicuranti, per accompagnarti alla fine alla consapevolezza più estrema: la pacchia è finita, sei un adulto, nessuno ti ama davvero, e se anche ti amasse sarebbero comunque tantissimi casini. Demoni è un disco che non dovete ascoltare se stata affrontando un trasloco, come me, e vi trovate nel cuore di un misero bilocale in periferia, se vi sentite soli e siete stufi delle pacche sulle spalle degli amici. Questo disco sarà una coltellata se vi aspettate un disco pop-rock di quelli che vi rifilava vostro padre in macchina, se pensate che le band di provincia non abbiano più drammi da raccontare e se eravate abituati ai cantautori indie.
E mi ritrovo qui, in questa sera strana, in una via silenziosa, con questo dannato tram che non vuole passare: Demoni è probabilmente un disco che vuole indagare il sentimento che deriva dal sentirsi abbandonati, la responsabilità estrema che arriva quando non siamo più dipendenti da nessuno, quando siamo adulti, e incredibilmente soli. Non ci sono canzoni d’amore che tengano, quando non c’è nessuno ad ascoltarle. Avrei voluto condividere questo disco che una persona che mi ha lasciato qui, in questo bilocale, credo che ci avrebbe fatto bene, credo che avrebbe saputo comunicarci come ci sentivamo, meglio di quanto abbiamo saputo fare noi. In particolare, Tutto quello che saremo, mi ha mostrato tutte le possibilità che non abbiamo avuto e sono lì, schiaffate brutalmente dentro una canzone, con una semplicità estrema che odio tantissimo non aver saputo fare mia.
Qui dentro ci ho ritrovato i dischi dei Marlene Kuntz che mi faceva ascoltare mia madre, i Baustelle che ascoltavo io al liceo, tutti i concerti che mi sono ritrovato a fare da solo quando tutti hanno smesso di ascoltare rock e hanno cominciato a fare figli, una familiarità di una band che mi sembra di conoscere da anni. Una nostalgia infinita per un mondo che non tornerà più. Mi piace pensare che questo disco arrivi da un passato tormentato, quello adolescenziale, e che voglia ammonirmi su tutti gli sbagli che alla fine mi sono ritrovato a compiere, tutti quei demoni che ora mi porto dietro, ineluttabilmente. Un disco dedicato agli adulti che non si erano ancora resi conto di esser diventati tali, come me che neanche Zerocalcare c’era riuscito…
L’amore raccontato come lo racconta La Belle Epoque fa male, perchè affonda nella sfiducia, nelle complicità che fanno male, perchè racconta di come si possono condividere le fughe e di come la felicità è così rara che, quando arriva, sarebbe da prenderne nota.