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Musica per risorgere: alla scoperta dell’esordio di Lazzaro

Lazzaro è uno che, ormai, dovresti conoscere bene – almeno, se siete rimasti collegati, negli ultimi mesi, con la musica che vale: sì, perché nel giro di poche settimane il talento toscano è riuscito a farsi strada nel mondo arzigogolato e confusionario della discografia nazionale con un disco dalle sfumature complesse, sospese tra il post-rock e un’idea di elettronica che cerca costantemente la propria identità autorale.

La scrittura è quella dei cantautori, ma l’approccio alla produzione è quasi maniacalmente devoto ad un’idea di linguaggio che si avvicina alla performance, all’art-rock: una discesa negli Inferi (andata e ritorno, ascoltate il disco e capirete) che ammicca al glam senza contemporaneamente perdere d’essenza.

Insomma, un lavoro che meritava certamente un doppio (triplo!) ascolto e una chiacchierata a tu per tu con Lazzaro, per parlare di lui, del suo omonimo disco d’esordio e del futuro possibile di una Canzone sempre più in carenza di risorse e nuovi stimoli.

Benvenuto su Perindiepoi, Lazzaro. Abbiamo seguito il percorso dei tuoi singoli e ci aspettavamo un ottimo disco di debutto: siamo ancora più felici, quindi, di poterti fare oggi qualche domanda su “Lazzaro”. Per prima cosa, come stai e come stai vivendo questo momento? 

Ciao e grazie per l’invito! Avevo già sperimentato che sensazione si provasse con l’uscita dei primi due singoli, ma con il disco è tutto un altro discorso. Si parla di un primo disco, che ha occupato gli ultimi due anni ed è costato tanto lavoro: è un bel sospiro di sollievo vederlo finalmente fuori.

Non è stato un percorso semplice, immaginiamo dalla portata dei brani e dal lavoro che c’è stato dietro, quello che ha portato alla pubblicazione del disco. Si parla sempre dei momenti belli, ma anche i momenti brutti diventano essenziali nella crescita dell’artista: quali sono gli ostacoli che pensi essere stati più gravosi, nel tuo percorso da indipendente?

La musica indipendente è viva e ha voglia di fare, ma come ogni realtà indipendente ha i suoi limiti. Io mi sento abbastanza fortunato perché, pur non avendo un background da musicista, ho trovato subito piccole realtà di zona che mi hanno aiutato molto fin da subito. Ovviamente il problema principale è il vil danaro, che può essere usato in cambio di beni e servizi (migliori).

La collaborazione con Nicola Baronti è certamente risultata centrale nella resa di un disco dal forte piglio elettronico. Come vi siete conosciuti, come è nato il rapporto fra voi?

Ci siamo conosciuti in studio mentre stava lavorando al disco di Elemento Umano, Via Casabella 11. Era la prima volta che entravo in uno studio professionale: tutto fighissimo. Poi a cena parlammo del mio disco e fissammo una giornata di ascolti per conoscersi. Da lì iniziammo a lavorare alle pre-produzioni che avevo fatto in soffitta, fissando prima i punti chiave dei brani per poi passare all’arrangiamento, le incisioni e infine la produzione. Questi due anni sono stati anche una scuola per me, ho imparato parecchio guardandolo lavorare. Insomma, una bella storia.

Nove tracce che appaiono come fiori che si appoggiano sulla superficie di una pozzanghera, contaminando la propria purezza con una certa dose di “noise” esistenziale: c’è una visione esistenziale in “Lazzaro” che è impossibile non notare. Ma insomma, una “resurrezione”, dalla distopia del “vivere quotidiano”, esiste? C’è una via di fuga? Nel disco parli spesso di “prospettive”.

Io non credo nelle storie eccezionali, sebbene porti il nome di una di queste. Con questo disco ho cercato di evitarlo a mio modo, attraverso un mio immaginario, ma è anche vero che i brani sono nati e stati scritti nel quotidiano: a lavoro, in macchina, a letto. È un cane che si morde la coda. Visto che evidentemente non si può sfuggire al quotidiano, l’unico trucco che abbiamo è lavorare di prospettiva.

In mezzo a tante cose che finiscono, qualcuna sembra resistere. È solo moda, ciò che resta, o c’è di più? Che spazio trova l’amore, in “Lazzaro”? 

Lazzaro ama amare e negli ultimi anni ha imparato anche ad amarsi di più. Nel disco in realtà, per quanto intriso di malessere, c’è spazio anche per l’amore. “Pulviscolo” è la classica storia che finisce (la canzone dell’amore felice l’ho scritta in seguito), ma c’è amore anche in “Bellissima”, amore materno. Non per ultimo Lazzaro ama la vita, e questo si dovrebbe intuire un po’ in tutti i brani, in alcuni meglio che in altri, ma soprattutto dal nome, che vorrebbe essere già una dichiarazione d’intenti.

Ci sono dei brani nel disco che sembrano davvero cinematici, quasi avvolti in una nebbia che non li abbandona mai, quasi in uno scenario post-apocalittico. Che cos’è questa “fumo” un po’ distorto, un po’ abbacinante che lega tutte le tracce di “Lazzaro”?

È uno dei punti in comune che ho trovato con Nicola Baronti, ossia la passione per il cinema. Io stesso quando scrivo cerco di tirare fuori quante più immagini utili a quello che è il tema del brano, a volte sono le immagini stesse a suggerire il tema. L’esempio lampante è “Stupida”, dove sono partito con una piccola pre-produzione appena abbozzata di loop di chitarra in reverse molto arabeggiante, che già evocava un preciso scenario. Infatti la coda finale del brano è proprio un piano-sequenza dall’alto su una rivolta che si consuma.

E ora? Che succederà al progetto Lazzaro, quali sono i prossimi step del percorso?

Adesso cercherò di portare live il più possibile questo disco, vi anticipo la data del 4 Marzo all’Ottobit, dove festeggeremo per la prima volta l’uscita dell’album. C’è già un piccolo calendario di live che non vedo l’ora di annunciare.

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Un viaggio nel tempo con una Delorean chiamata “Wendy Night”, ecco com’è andata a Milano!

É stato strano? É stato strano. Ma strano bello? Strano bello. Perchè era da veramente tantissimo che non ritrovavo così tante persone, concentrate in un posto solo, che riescono a sfoggiare senza vergogna questi pantaloni stretti, queste vans a scacchi, capelli freschi di tinta di colori assurdi, non vedevo certi personaggi (incredibilmente sopravvissuti) dal 2008, ed è stato strano ritrovarsi, vecchi, e sempre emo. La Wendy Night ha avuto su di me quell’effetto amarcord, quel ritrovare quelle situazioni, vibes e persone che mi riempivano e mi salvavano quando ero un adolescente.

É un giovedì sera, e c’è la Wendy Night al Gate, in questa serata a Milano dove fa freddissimo. e già una vociare all’ingresso attira l’attenzione. L’idea è quella di portare per la prima volta dal vivo (con band) artisti appartenenti alla scena emo-punk romana, che finora hanno sempre e solo collaborato attraverso produzioni e featuring, con l’intento di proporre uno spettacolo unico! Il tutto era già avvenuto a Roma, al Monk, e da lì, la Wendy Night è diventata itinerante con l’obbiettivo di toccare le maggiori città italiane e inserire in line-up nuovi progetti di questo panorama musicale. 

Batteria e chitarra sono coperti dai membri della band Il Corpo Docenti (Luca Sernesi e Lorenzo Manenti), e sul palco si sussegguono xDiemondx, Suicide Gvng, Ego, Decrow, IN6N, Giuze, ANSIAH e Spidy & Biso. Un concentrato adrenalinico dove è successo di tutto: un ragazzo con le stampelle è salito sul palco, il sudore addosso, il pogo che ci era così mancato durante gli anni del Covid. Quegli anni così brevi che ci hanno fatto così male, perchè ci hanno fatto invecchiare e ritrarre nella nostra comfort zone. Roma da urlare anche qui, a Milano, dove senza tregua, Decrow ci invita a fare un casino pazzesco, precedendo una cover fantascientifica di “Sere Nere” di Tiziano Ferro.

La sottocultura emo non sta tornando di moda, forse è stata dormiente nella testa di tutti noi, che non abbiamo mai dimenticato cosa significasse stare nelle piazzette, parlarsi per ore su internet, innamorarsi di quella ragazza con le gambe nude e i calzini a strisce, anche in pieno inverno. Siamo tutti Mercoledì della serie di Netflix, anche se abbiamo passato i trenta, e non potrei essere più contento di tutti quei ragazzetti che ho visto giovedì, che forse pensano che sono ancora un figo a vestirmi così. Mi domando come si siano avvicinati a queste sonorità e colori, come è successo che dei ragazzi come Spidy & Biso, classe 2004 o di lì, si vestano come avrei voluto vestirmi io 15 anni fa. E questo vortice di domande e passione, rende tutto bellissimo.

Due ore serrate, a cui segue anche il DJ set emo-punk di Emo Sucks e Yuks. Ed è un giovedì sera di gennaio che sa di estate, di fine degli esami e di spensieratezza, quella che non ti costringe alla sveglia delle 7, domani mattina.

J.

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Torna Kublai (e ci siamo pentiti di non aver ascoltato meglio il suo debutto del 2020)

Il 2020 è stato un anno bulimico di uscite, tutte quelle che non avevamo voglia di ascoltare (per ovvi motivi) e che ci siamo ritrovati a collezionare nelle mail, a spalmare sul calendario come degli ossessi, senza forse la forza di ammettere che non eravamo pronti a quella tonnellata di musica nuova, e che forse avevamo ancora voglia di rifugiarci nei dischi e nei telefilm che già conoscevamo a memoria. Tutto ricominciava, a partire dai concerti che a singhiozzi, tra chiusure ed aperture, riprendevano, ma nessuno riusciva ad inseguire quell’ossessa e insistente coda di uscite. E sul finire di quest’anno assurdo, il lontanissimo 2020, usciva Kublai, il disco di debutto del progetto solista di Teo Manzo.

Lui, tra le menti che hanno portato avanti anche De Andrè 2.0, progetto amarcord che ha visto, tra le altre cose anche un sold out all’Alcatraz di Milano, si è rifugiato qui, in questo disco che parla di terre lontane (il vastissimo impero di Kublai Khan) ma anche delle più conosciute strade padane, di due amici che si separano, come Kublai Khan e Marco Polo, anche in un presente che ci può sembrare più banale. Di brani concatenati, che ad ascoltarli di seguito non si capisce l’inizio di uno e la fine dell’altro, di immagini che vanno a pescare nell’immaginario di Italo Calvino (e delle sue Città Invisibili) ma che in realtà parlano di una perdita molto più personale e meno onirica. Conversazioni perdute, e sepolte sotto gli effetti elettronici, e avvinghiate alla musica. Parole, melodia, e musica che sono meravigliosamente tutt’uno.

Il nostro consiglio è quello di iniziare la settimana con il suo nuovo singolo, Una notte più lunga, pubblicato proprio oggi, primo spiraglio di un nuovo disco di prossima uscita: un’abisso che sarà positivo, così promette il cantautore e compositore. Da qui, immergetevi nella tristezza catartica del suo disco di debutto, l’omonimo Kublai.

Buon inizio settimana!

J.

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Cosa c’è nella camera di Alessandro Grazian

Venerdì 11 Novembre 2022 è uscito “Mondo Peplum, il nuovissimo album di Torso Virile Colossale, l’unico e originale progetto musicale alle prese con il mondo antico e con il Cinema Peplum. L’album esce a 5 anni di distanza dal disco d’esordio (Vol.1 – Che Gli Dei ti Proteggano) e fin dal titolo si riallaccia al Cinema Storico/Mitologico italiano con l’intento di evocarne l’immaginario e rendere omaggio alla sua forza visionaria ed ispiratrice. Come per il primo disco tutti i brani sono composizioni originali in bilico tra la musica classica, la colonna sonora e il rock più muscolare e ancora una volta tutte le composizioni sono di Alessandro Grazian che di Torso Virile Colossale è ideatore e fondatore.

Noi non abbiamo resistito, siamo stati a casa di Alessandro, ed ecco cosa ci ha mostrato.

1) La Cartina dell’Europa anni ’80

In casa tengo appesa ad una parete questa vecchia cartina dell’Europa, una di quelle che si appendevano nelle scuole negli anni 80. Io sono cresciuto con la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, Berlino Est e Leningrado e forse questa cartina geografica mi piace tanto anche perché mi ricorda di quand’ero un bimbo. Ho un debole per la geografia e per la Storia Europea e durante la lavorazione dell’ultimo album di Torso Virile Colossale ho sempre avuto sotto gli occhi questa affascinante stampa. Quando stai cercando di mettere a fuoco un’idea, guardare l’Europa stampata in grande, frugare i nomi delle città, le strade, i colori di stati che non esistono più risulta un’esperienza particolarmente stimolante. Il mondo è in evoluzione. Sempre.

2) Il Portapenna-Cesaricidio

Regalo geniale di un’amica.
Un portapenne in cui le penne come pugnali trafiggono la schiena di Giulio Cesare.
Il cesaricidio che si fa oggetto di cancelleria insomma! Oltre ad essere bello esteticamente è anche molto pratico.

Diciamo pure che da quando l’ho ricevuto ha un posto d’onore sulla mia scrivania.

3) Il Mousepad ‘Vesuvius’

Un mousepad con riprodotto ‘Vesuvius’ di Andy Warhol, la splendida opera che l’artista realizzò negli anni ’80 quando frequentava Napoli e Lucio Amelio. Non riesco a ricordare se l’ho comprata ad una mostra di Warhol o a Napoli, comunque è un oggetto che tengo con me da almeno 15 anni ma non credo di averlo mai usato come mousepad. Se ne sta lì, appoggiato sulla libreria come un piccolo quadro ed è perfetto così

4) Cartolina della Madonna Del Parto

La Madonna del Parto di Piero della Francesca è un’opera a cui sono letteralmente devoto. Dirò di più: anni fa visitandola a Monterchi ho provato sulla mia pelle cosa sia la La sindrome di Stendhal. La Madonna del Parto è un’opera incredibile e per me è come un talismano portafortuna: Ogni volta che lavoro a un nuovo album tengo a portata di mano una sua stampa. Ne ho varie riproduzioni: Poster, Cartoline e magneti. Ogni tanto la regalo a chi mi sta a cuore. Ora che ci penso devo tornare al più presto a Monterchi a rivederla.

5) Il Magnete del Tilacino

Altro bellissimo regalo è questo magnete che riproduce un Tilacino, il mitico
marsupiale carnivoro vissuto in Oceania e portato all’estinzione nel 1936 dai coloni europei (Maledetti!). Il tilacino è il mio animale preferito e l’ho anche cantato nel mio secondo album di canzoni intitolato ‘Indossai’. Questo bel magnete me lo regalò Nicola Manzan (Bologna Violenta) dopo un suo viaggio in Australia.

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Colombo riporta in vita Emily Dickson, ed è incredibilmente molto pop

Sembra incredibile ma abbiamo anche noi il nostro James Blake, si chiama Alberto, ma più semplicemente Colombo per Spotify, da Brescia ma itinerante per studiare musica tra Parma e Milano, classe 1994 e gioca con influenze di respiro internazionale per riportare in vita la poetessa Emily Dickinson che ben si intreccia con una voce eterea e giri di piano ipnotici. “Where children strove” non è il primo disco di Colombo, ma sicuramente il primo con feat. dall’aldilà: le parole di Emily Dickinson diventano tutt’uno con un universo malinconico a tinte pastello, che piacerebbe ai fan dei Coldplay.

É sempre soddisfacente e bellissimo quando si inizia l’anno con piccoli dischi del genere, quattro tracce in grado di svoltarti le giornate di pioggia, che sono l’equivalente di una passeggiata solitaria alla Pinacoteca di Brera (cosa che, se non avete mai fatto, vi consiglio assolutamente di provare), che affondano nei pensieri e che è impossibile lasciare andare. Io che ho lasciato che il disco riempisse casa, e si infiltrasse attraverso le tapparelle e i fasci di luce del pomeriggio, con un caffè e le ultime mail di lavoro da leggere, mi sono ritrovato ad ascoltarlo tre volte di seguito: le parole sono immortali, tristi e, oserei dire, universali, e Colombo le fa proprie in una maniera moderna e a tratti anche ironica.

Musicalmente ogni traccia è liberamente ispirata alle melodie di Dvořák (Sinfonia “Dal nuovo mondo”), Chopin (Notturno op.9 n.2), Tchaikovsky (Concerto per pianoforte e orchestra) e Ravel (Concerto in sol). Lui parla di pop neoclassico, e forse, immaginandoci le statue di Canova e culi sodi in marmo, non potremmo che dargli ragione, con la triste consapevolezza che, forse, per fare qualcosa di davvero originale non bisogna che andare a pescare ciò che ci siamo persi nel passato. Nella musica come nella vita, chissà… Quello che so è che raramente un disco mi ha fatto amare l’arte così tanto, a trecentosessanta gradi, con la voglia di scoprire di più, leggere di più, e sicuramente ascoltare di più anche Colombo. Non perdetevelo.

J.

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“Mondo Peplum” di Torso Virile Colossale, e il rock muscolare epico del futuro

Vorrei davvero, ma davvero tanto, che qualcuno proponga una serata in un cinema, di quelli vecchi e un po’ polverosi in via d’estinzione, dove venga proiettato un Ben Hur con musica dal vivo, rigorosamente necessaria la presenza delle chitarre elettriche. Non che sia una cosa nuova, quella di chiedere a band e artisti della scena alternative di musicare dei film: ricordo con particolare piacere un episodio in cui i Marlene Kuntz suonarono sulle immagini di Signorina Else, degli anni Trenta. Un contrasto che ancora adesso mi mette i brividi. E di questo stesso contrasto vive il mio ascolto di Torso Virile Colossale, il personalissimo e folle progetto del cantautore e compositore Alessandro Grazian, la cui passione per il cinema peplum, genere che consideriamo, tristemente, di serie B, lo ha portato a mettere in piedi uno dei mondi musicali più interessanti della scena alternativa di questi giorni. Giorni dove sembra imperante la presenza sui social, degli algoritmi, delle tendenze, a contendersi quei pochi spazi dalla vita breve.

Ed è qui, che come una sirena, la voce di Rachele Bastreghi in “Estasi a Tor Caldara” ci conduce ipnotica in questo mondo di colonne sonore fantascientifiche. E questa chitarra di “Chi guida l’orgia?” non mi fanno che desiderare ancora più ardentemente di vedere una battaglia epica, tra uomini e scheletri magari, come quella de Gli Argonauti, in compagnia di Alessandro Grazian e di questi suoi sinuosi subbugli.

Mondo Peplum, il nuovo disco e secondo capitolo di Torso Virile Colossale, è, come per il primo disco, in bilico tra musica classica,  la colonna sonora e il rock più muscolare, la cui forza nel farsi apprezzare anche dai miei genitori, che tagliano Torino in macchina a suon de “Il Trionfo”, fregandosene altamente di ciò che è indie e cosa no.

Torso Virile Colossale è solo una finestra su un mondo ampissimo, e fa venir voglia di scoprire, ascoltare e vedere cose nuove. E non credo ci siano molti altri dischi che possono avere questo potere. Ascoltate Mondo Peplum.

M

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Cosa c’è nella camera di Milo Scaglioni

Esce venerdì 9 dicembre 2022 per Another Music Recordings “Locked in a circle“, il nuovo singolo del songwriter Milo Scaglioni: un nuovo capitolo che ci accompagnerà alla pubblicazione del suo secondo album in uscita questa primavera, a sei anni di distanza dal precedente disco di debutto “Simple Present“.

Locked in a circle” è un brano che, pur mantenendo l’inevitabile matrice britannica che già conoscevamo, in parte abbandona l’oscurità e la nostalgia psichedelica in cui ci aveva fatto condotto Milo Scaglioni, concedendoci qui un nuovo loop musicale che esplora sentimenti quali lo smarrimento di fronte all’amore, e la paura di perderlo, e descrive la gabbia quotidiana in cui ci rinchiudiamo, lasciandoci con un messaggio tuttavia positivo: “out of the circle/ made your escape/make it better every day”. Questo brano è la prefazione del nuovo (secondo) romanzo di formazione musicale firmato dal menestrello che ama la psichedelia (come lo ha definito XL Repubblica nel 2017): “Port Nuveau, questo il titolo del nuovo album in uscita all’inizio della primavera del 2023 per l’etichetta parigina Another Music Recordings

Mentre Simple Present si ispira alla psichedelia dei tardi anni 60 e al cantautorato di autori come Elliott Smith e Nick Drake, la sua seconda raccolta di canzoni in inglese,Port Nuveau, spazia in una direzione più ecclettica, abbracciando mondi sonori che partono dall’intimismo di una canzone come “Sketches in the sand” e arrivano all’urlo di un pezzo come electric shush, passando attraverso brani dalla psichedelia alla velvet undrerground, per poi virare verso un Richard Ashcroft del primo periodo solista e ripartendo per un viaggio in treno dalla Francia all’Olanda, nella storia di un amore da nouvelle vague raccontata in from “Paris to Amsterdam“. 

Noi non abbiamo resistito, e gli abbiamo chiesto di fare un giro a casa sua. Abbiamo capito un paio di cose sul suo passato da vegano, dei suoi gusti letterari e molto altro.

Il primo oggetto forse ha scarso potere evocativo, ma è diventato fondamentale quando un anno fa ho provato, con successo discreto ma non impeccabile,  ad adottare una dieta consapevole e vegana. Si tratta di un comunissimo sminuzzatore elettrico, ma mi ha reso la vita molto più facile e saporita. Cucinare è per me un piacere (senza esagerate ambizioni), ma è anche una necessità se uno non vuol vivere di sola insalata. Attraverso questo signore sono passate centinaia di cipolle, carote, avocadi, legumi vari e verdure a foglia larga sbollentate. E’ velocissimo, non fa domande e non si stanca mai di lavorare.

Il secondo oggetto è questa piccola casetta di legno in stile boscaiolo canadese. Mi è stata regalata da un’amica per il mio compleanno e mi piace molto immaginare che dentro ci vivano Babbo Natale, Rudolph e qualche elfetta avvenente e lasciva.  Mi immagino Rudolph con il suo naso rosso, seduto su una poltrona a dondolo con la coperta sulle gambe, di fronte al fuoco intento a leggere i fratelli Karamazov mentre Babbo Natale si da alla pazza gioia con le sue amiche Elfe nella camera accanto. In realtà si tratta si un bruciatore d’incenso.

Anche il terzo oggetto è un regalo fattomi per il mio compleanno. E’ un piccolo pulmino della Volkswagen  in miniatura. Niente di speciale se non che è la replica esatta del pulmino che mi portava, insieme ai miei compagni di squadra, a giocare a calcio in freddissimi pomeriggi d’inverno prima che abbandonassi per sempre il calcio (ero giovanissimo e ci tengo a precisare che il mondo non perse alcun fenomeno). Mi ricordo che il nostro autista aveva spesso addosso il discreto profumo della grappa e che una volta andammo dritti, a tutta velocità, attraverso uno stop, senza sapere se arrivavano macchine. Su questo furgone ho imparato a vivere pericolosamente.

Il quarto oggetto è questo quadro. Si tratta del ritratto di un cane ed è stato appeso al muro della mia cameretta di bambino e adolescente da quando sono nato. Ho deciso di portarlo a casa mia perché gli sono affezionato. E’ uno dei cani più tristi che ho mai visto e mi chiedo se trovarmelo di fronte ogni giorno al risveglio non abbia avuto un effetto sulla mia psiche di bambino e adolescente. La verità è che ogni volta che lo vedo avrei voglia di abbracciarlo e di dirgli che va tutto bene, che la vita è molte cose e che le avversità che incontriamo spesso ci guidano in posti dove non saremmo mai arrivati in una tiepida e solare mattina di maggio.

Dulcis in fundo, il mio primo basso. Il mio primo strumento. Il mio primo amore. E’ un ibanez roadster (non roadstAr) del 1980. Apparteneva al salumiere da cui si serviva la mia famiglia che lo vendette a mio fratello più grande. Nel giro di non troppo tempo finì per essere dimenticato in un armadio. Quando a 15 anni iniziai a suonare lo feci grazie a questo strumento, che all’inizio rubavo di nascosto e che poi mio fratello mi prestò per tre anni, fino a quando me lo regalò per il mio diciottesimo compleanno (grande regalo). Quando a 19 anni mi trasferii in Inghilterra il basso venne con me. A un certo punto lo prestai ad un amico, che finì col tenerlo in casa per 10 anni.

 Subito prima della pandemia andai a londra a fare festa e rimasi a dormire da questo amico. Tornati a casa dopo una notte di bagordi, lo rividi con la coda dell’occhio in un angolo del salotto e non ci potevo credere. Dimenticato due volte è oggi il mio strumento preferito. Quando si dice essere perseveranti.

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La Festa di Dischi Sotterranei è (e sarà per sempre) l’appuntamento musicale dell’anno

Di nuovo quel momento dell’anno, di quella cosa che è solo al secondo album ma sta diventando un appuntamento fisso: quel momento dell’anno dove mollo qualsiasi cosa per farmi tre giorni sul divano di un mio amico che è felicissimo di avermi a casa sua, anche se a mala pena gli rivolgo parola e abbiamo orari completamente invertiti. Siamo a Padova, ovviamente, e fa un freddo incredibile. L’anno scorso, questo stesso weekend mi aveva fatto realizzare che, in fondo, ero una persona felice e, anche se entravo violentemente nella vita adulta, potevo continuare a fare il coglione chiedendo a degli sconosciuti di sollevarmi durante un assolo dei Giallorenzo che accompagnavano un generico e allora sconosciuto Visconti. Oggi guardo le mie classifiche di Spotify e Visconti è tra gli artisti che ho ascoltato di più quest’anno.

Ho di nuovo quel cappotto di merda, che realizzo di non aver neanche lavato dall’altra volta, faccio schifo, ma non quanto i bagni del CSO Pedro che già risuonano i primi gruppi. Mi tolgono Pietro Berselli a causa del Covid, e piango interamente come un coglione, perchè in realtà, da trentenne che si rispetti, era tra i nomi che più mi era rimasto dentro dall’anno scorso. Merli Armisa è una piacevole sorpresa, i Vanarin sono il mio primo viaggio in Inghilterra che per ovvie ragioni mi ricordo pochissimo, Visconti, la mia storia platonica e omosessuale più riuscita, Post Nebbia, classiconi incredibili anche se avranno tipo vent’anni e mi fanno sentire un cretino, TA GA DA e le prime gomitate, e poi un infinito DJ set che mi accompagna al bar.

Cose che cambiano alla festa di Dischi Sotterranei rispetto a qualsiasi altro evento: oltre ai bagni più sporchi, persone vere, musica vera, pochissimi cellulari alzati, i biscotti con la droga al merch, gli artisti che vanno a vedere i set degli altri artisti e pogano sulla musica degli altri artisti e sanno tutte le canzoni a memoria, meglio di me che sono uno schifoso fan che si è fatto tutto il viaggio in treno cantando è solo un giocooooo…

Vinnie Marakas
foto di Simone Pezzolati

Il Pedro è un concentrato di sbandati, di amici incondizionati. Ci parliamo, ci seguiamo su Instagram e poi non ci parleremo mai più, mangiamo la pizza migliore del mondo all’interno del centro sociale, siamo tristi alla fine del primo giorno. Mi sento una persona normale, un impiegato qualsiasi, alla fine di un giorno di ordinaria follia. Ho come la sensazione che quella di Dischi Sotterranei sarà la mia vacanza obbligata: il Primavera Sound in estate, due giorni chiuso al Pedro d’inverno.

Secondo giorno. Jesse The Faccio, immenso profeta vestito da cugino sfigato, Michele Novak alla chitarra sul palco con lui dopo l’assenza, sentitissima da molti che alzavano cori in suo favore, Roncea che non era molto a fuoco con il resto della festa, ma è stato così godibile che mi sono scolato due birre solo durante il suo set, Baobab! e il progetto più raffinato del roster, la follia di Vinnie Marakas, l’annuncio dei C+C=Maxigross nel roster e il set più bello del mondo, Dead Cells Corporation che mi sono sorpreso non venisse giù qualsiasi cosa, Ulisse Schiavo che è il nostro James Blake.

Ammetto che ci sono stati diversi cambi di line up e mi sono perso ad una certa, non riuscivo più a capire cosa sarebbe successo di lì a poco, ma ad una certa non me ne è più importato. É stato bello ritrovarmi i Planet Opal quando non li aspettavo, o forse avrei dovuto ma ero ubriaco, i Dead Cells Corporation quando invece mi aspettavo il pogo dell’anno scorso con gli Halley DNA e via così. Sono stato rapito, assorbito, confuso, metaforicamente picchiato. Ed è stato bellissimo, anche quest’anno.

Sarà così dura tornare indietro ora.

Planet Opal
foto di Simone Pezzolati
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La Music Week a Milano si è fermata al live dei Rumba De Bodas

É di nuovo la Music Week, quella settimana fredda in cui bisogna sgambettare da una parte all’altra di Milano per vedere quel professorone parlare di qualcosa, vedere quella band in acustico, e prendersi una birra con quel discografico del basso Lazio che è venuto apposta per questa settimana. Ciò che appare evidente è che in questa bulimia musicale, per quanto riguarda la parte live, sia spesso banale, tirata. Progetti assurdamente belli e complessi ridotti a un paio di brani con una chitarra acustica e un microfono gracchiante, live sold out con la gente tutta al bar, e una serie infinita di incongruenze del genere.

E poi è un giovedì sera, quel giovedì sera di quella maledetta settimana, e siamo al Nibada Theatre sui Navigli. Non ci entravamo da tempo, ed eccoci qui, con quei panini giganti e quel palco piccolissimo che sembra impossibile possa contenere tutti i Rumba De Bodas. Un progetto musicale imponente con una storia il cui inizio risale al 2008.

Il  loro nome deriva dall’unione di due espressioni bolognesi: “rumba”, ovvero far rumba, far casino, e  “bodas” che deriva dai matrimoni e, in questo caso,  diventa simbolo  del connubio tra i generi musicali con cui il gruppo sembra ancora oggi non riuscire a decidersi. Per  anni si esprimono prima per le strade cittadine, con un’attività di busking che li porta a girare e a ed esibirsi nelle piazze europee e italiane. Già nei primi anni della loro formazione iniziano a fare le  prime apparizioni in alcuni festival importanti del continente: il Boomtown Festival in Inghilterra, il  Fusion Festival in Germania e il Cous Cous Festival in Sicilia. 

E 13 anni dopo eccoli qui, con un magnetismo trascinante, un live vero in mezzo ad una settimana di piccole delusioni, un locale sudato e caldo dove rimbomba un sax seducente, e la voce inconfondibile di Monique. I Rumba De Bodas fermano il tempo, siamo in un qui e ora dove non ci sono storie da fare, non ci sono conversazioni e sessioni di networking da fare assolutamente in questa Music Week di nerd e primi della classe. Improvvisamente sembra tutto chiaro, la musica è questa cosa qui, e non quella che ci siamo trascinati dietro negli scorsi giorni.

CM

foto di Simone Pezzolati
foto di Simone Pezzolati

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Il mare d’inverno dei Basiliscus P

Stupisce sempre abbastanza pensare quanto in realtà la scena rock sia così consolidata e resistente (nel senso vero e proprio del participio, che resiste) in Italia. Nei giorni tristi e milanesi del mio monolocale mi convinco che tutto si riduca alla playlist Scuola Indie su Spotify, a quell’immenso piattume di canzoni che si imitano tra di loro, creando una scena immensa che vive solo di numeri e dinamiche interne alle piattaforme digitali, così poche poi esistono effettivamente dal vivo (alcuni nomi mi rimbalzano in testa, ma poi non li vedo nei localini, ai festival, alle aperture di qualcosa di più importante), solo un nome che ribalza tra gli artisti consigliati da Spotify, un multiverso che non ha mai un riscontro nella vita vera, quella di chi la musica la respira.

E di polvere, locali sudati e scontri, sembrano essersi nutriti molto i Basiliscus P, band messinese che da pochissima si è imposta con il nuovo album dal titolo “Spuma“: un meraviglioso intreccio di chitarre e sentimenti, richiami jazzistici e tormenti strumentali che sono stati registrati in presa diretta in un ex Forte di fine Ottocento. Un mondo a sè, fuori da ogni schema o regola che possa imporsi da quel multiverso rognoso delle piattaforme di streaming. Questo perchè Spuma è un viaggio che si ascolta dall’inizio alla fine, un tunnel psichedelico e oscuro da percorrere con coraggio.

Questo disco prende vita da lunghe sessioni di improvvisazione in sala che poi sono state sviscerate e riarrangiate sotto la guida di Marco Fasolo, leader dei Jennifer Gentle e produttore tra gli altri di I Hate My Village e Bud Spencer Blues Explosion. “Spuma” è stato concepito durante il lockdown. Più che dalla spuma, o schiuma del mare, il nome deriva dalla bibita, vera e propria passione dei tre, che è molto graffiante come gusto ma allo stesso tempo dolce, ed è un po’ quel che può ricordare il suono dei Basiliscus P.

GR