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Intervista Pop

Tra le strade affollate di sogni di “Urbe” di Yassmine Jabrane

Yassmine Jabrane è un’artista alla quale, da queste parte, teniamo parecchio: piglio “crossover” capace di unire la poesia di una scrittura ispirata a venature mediterranee che richiamano a sonorità perdute, la cantautrice ha finalmente debuttato con un disco che parla di identità, ricerca e voglia di reinventarsi, senza perdere naturalezza.

Cantautrice che non smette di stupire, Yassmine Jabrane ha da poco pubblicato “Urbe”, il suo primo disco: ecco, ma perché hai scelto proprio questo, come titolo del tuo lavoro?

Credo sia il più rappresentativo del progetto e dei brani che porta al suo interno! Essere in città ed essere cittadina è una parte fondamentale per me, Urbe è la mia dedica al luogo che mi ha cresciuta.

Raccontaci un po’ la genesi di queste canzoni: è stata una lunga gestazione quella di “Urbe”?

Molto, così tanto che ho pensato più volte che non sarei riuscita a condividerlo mai. C’è tanto di me, della mia storia, che a volte credo di essermi sentita forse un po’ troppo nuda scrivendo queste canzoni.

Pochi, ma intensi brani, per un percorso che ha vissuto già diverse svolte importanti ed emozionanti, con la partecipazione a premi di spessore. Quali sono state, secondo te, le tappe fondamentali del tuo percorso fin qui?

Credo sicuramente aver avuto la possibilità di cantare su palchi palchi grandi come quello di Deejay on Stage o prestigiosi come quello del Premio Lunezia.

Parliamo dei brani, che lasciano emergere l’intimità di una scrittura autoriflessiva: quanto ti senti cambiata, da quando hai cominciato a scrivere le canzoni di “Urbe”? Quanto invece continuano ad essere per te attuali?

È stato un lungo percorso, quindi inevitabilmente la risposta è si. Nonostante ciò sono sempre brani attuali per me. Credo che sia perché parlano di sensazioni più che di momenti e quindi questo li rende per me sempre attuali.

“Lady D”, il tuo ultimo singolo, aveva fatto intuire che il tuo sarebbe stato un disco capace di dare centralità alla tua sensibilità, rappresentando in qualche modo un nuovo modo di “vivere” l’emozione. Come ci si scherma dai dolori del nostro tempo? 

Francamente non ne ho idea… la mia soluzione è essere sempre circondata dalle “mie” persone. Per me non c’è nulla di più curativo di un pianto tra amici. Una vera e buona rete di supporto è un grande dono!

Quali sono le cose che vorresti cambiare nella discografia italiana? Immagina di avere la bacchetta magica…

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo la domanda, sono nomi di artisti emergenti che spaccano eppure non hanno la risonanza che meritano, quindi direi… un grande grande festival per emergenti..?

Bene, grazie per il tuo tempo Yassmine! E ora, cosa dobbiamo aspettarci dal tuo futuro?

Spero sempre più musica, sperando che l’uscita di Urbe sia solo un inizio!

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Intervista Pop

“Oltre” la mediocrità della canzone contemporanea c’è Paduano

Paduano è un nome che ci piace molto; il suo nuovo EP, “Oltre”, ci ha colpiti per la sua capacità di mettere a fuoco con lucidità ed eleganza un racconto personale che facilmente si eleva alla collettività. Potevamo, insomma, non fargli qualche domanda? Ovviamente, no.

Paduano, è un piacere conoscerti con un disco. Da quanto aspettavi questo momento?

Piacere mio. Dopo il primo disco pubblicato nel 2021, avevo in mano altri brani, non del tutto completi. Questo periodo è stato colmo di ricerca, ascolto e studio per cercare di avvicinarmi a sonorità diverse da cui sono attratto da qualche tempo. Poter pubblicare questo lavoro dopo qualche anno di elaborazione, è stata come una liberazione, un salpare e lasciare gli ormeggi, un nuovo punto di partenza.

“Oltre” è un lavoro denso, che a suo modo racconta con sincerità un percorso personale che può essere anche collettivo. Quanto è stato “terapeutico” per te scrivere le canzoni di questo tuo EP d’esordio? 

É stato terapeutico quanto formativo. Si può dire che alcuni di questi brani sono stati scritti insieme alla musica e alla ricerca del suono che abbiamo effettuato. Mi son ritrovato a dover cambiare modo di scrivere testi, non potendo essere prolisso, c’era la necessità di una scelta dettagliata e precisa delle parole. Poter riuscire a rendere i miei pensieri in brani diretti e allo stesso tempo esplicativi, sì questa è stata la mia terapia.

Una manciata di canzoni: perché non un disco più denso?

L’Ep presenta due brani dal carattere più pop (Buccia d’arancia e Argini), gli altri brani sono, a mio avviso, un’ottimo incontro tra canzone d’autore e  musica strumentale. La scelta di non inserire altri brani è proprio quella di non perdere la direzione che è stata presa per questo lavoro, che questi brani potessero conservare il loro spazio, senza il rischio di perdersi e confondersi in altre dimensioni.

Raccontaci i brani: in ognuno, c’è un po’ di te, ma ce n’è uno al quale ti senti particolarmente legato? 

Sono tutti brani che ho scritto nel giro di un anno, e quindi sono figli dello stesso trascorso e di emozioni e sensazioni simili fra loro. Il filo conduttore che li unisce è sicuramente quello di porsi delle domande, a cui, per certi versi, non serve neanche dare delle risposte definitive, ma domande che stimolano a guardare il proprio interno e cio’ che ci circonda da più prospettive. Posso dire per certo che Buccia d’arancia sia una dei brani a cui sono più legato, per l’intreccio melodico con il testo, e per aver provato a rendere un mio pensiero preciso e determinato avvicinabile a esperienze altrui.

Tra tutti, ci ha colpito per il suo sound “Ipermetrope”, brano dal retrogusto sperimentale che riflette in modo metaforico sul senso del tempo, e del suo inesorabile passaggio. Ci racconti come nasce questa canzone?

Un altro brano a cui sono molto legato è proprio Ipermetrope. E’ un brano che non ha la struttura classica della canzone, ma si è praticamente evoluta con l’arrangiamento. Sono molto legato al testo, che credo sia quello più personale dell’EP, ed emotivamente mi ha trasmesso tanto. E’ la presa di coscienza e la razionalizzazione della fine di un rapporto, capendo che la verità da cui a volte si cerca di scappare puo’ scaturire una delusione momentanea che il tempo trasformerà solo in un ricordo. L’arrangiamento e l’ambientazione di questo tema combaciano perfettamente ed il finale del brano sembra pian pian, tramite un vortice di archi e di synth, spostare le nuvole per far passare la tempesta.

Tutti i brani, vedono la firma di Caterina Bianco e Michele De Finis come produttore. Ci racconti come vi siete conosciuti, e com’è stato lavorare insieme?

Li ho conosciuto prima musicalmente con i progetti in cui hanno suonato e poi personalmente. Nel 2019 ero alla ricerca di un chitarrista, ed entrai in contatto con Michele, chitarrista, tra gli altri, degli EPO, band di cui sono fan. Gli feci ascoltare delle mie idee di brani e decidemmo di lavorarci insieme per arrangiarli, con l’aiuto di Caterina, che è per me tra le musiciste e polistrumentiste più brave di Napoli e non solo, ed in seguito di Antonio Dafe, sound designer e fonico di Tropico e La Maschera.

Paduano, grazie per il tuo tempo, e in bocca al lupo! Quando potremo ascoltarti dal vivo?

Siamo in fase di costruzione del live, tra poco usciranno le date dove poter sentire  questo disco dal vivo, Grazie a voi e viva il lupo.

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Indie Pop

Il primo disco di Pas Mal non è rock, ma spacca lo stesso

Niente male il disco d’esordio di Pas Mal, nome d’arte di Lorenzo Federici, volto certamente conosciuto alla scena indipendente nazionale: “Se fosse musica rock” è un concentrato di pop ben costruito e lavorato nelle fucine di La Clinica Dischi, con un occhio di riguardo per una scrittura che riesce ad essere profonda senza perdere leggerezza – come direbbe Italo Calvino.

Pas Mal ha un timbro che si scolpisce bene nel cuore, convincendo fin da primo ascolto della bontà di una proposta che conferma le aspettative ad ogni nuovo play: brani più arrembanti e coinvolgenti (come la hit “Vale Tutto” o “Crolla il cielo”) si sposano alla perfezione con canzoni più sommesse, che quasi assomigliano a rivelazioni fatte sottovoce al nostro cuore: lo avevamo già notato con “Asciutto”, ma potremmo dire lo stesso di “Sotto i nostri occhi”.

“Cimici”, infine, è davvero una piccola perla che racconta le insicurezze di tutti: un manifesto generazionale che trasuda tra le spire di un brano che fa degli interrogativi della vita uno stile di vita, dei dubbi e delle incertezze dei compagni di viaggio fedelissimi quanto rumorosi.

Un ottimo esordio, insomma, che merita fiducia e attenzione: fin qui, tutto bene, ora ci aspetta il futuro.

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Indie Pop

Tra le strade di “Urbe” in cerca di noi stessi: il primo EP di Yassmine Jabrane

Urbe” come città, dimensione interiore che apre le sue porte alla contemplazione pubblica, con vista sul cuore aperto di una penna sensibile, e capace certamente di spiccare nel “grigio diluvio democratico” del nostro tempo avaro di bellezza: questo è molto di più è il primo disco di Yassmine Jabrane, canta autrice romana che dopo una lunga gavetta tira le somme del suo percorso fin qui racchiudendole in quattro canzoni dal retrogusto esterofilo.

Il disco si presenta fin da subito con una compattezza di sound che rivela 1:00 direzione artistica, volta ad esaltare la timbrica espressiva e evocativa di Yassmine: quattro canzoni che rimbalzano fin da subito da un orecchio all’altro, passando dal cuore e incastrandosi nella testa grazie a strutture pop che tuttavia non al mainstream; il tutto, ben cucito addosso all’artista dal lavoro certosino di Cesare Augusto Giorgini.

Il lavoro si presenta come una riflessione a cuore aperto sulle tematiche emotive ed esistenziali che più stanno a cuore all’autrice, che senza filtri si presenta al pubblico italiano con la precisa volontà di trasformare le debolezze in forza e in nuovi punti di partenza. Così, l’ansia può diventare un’occasione di riflessione sui freni che ci imponiamo, una relazione andata male si rivela spunto di indagine riguardo al bene che davvero riusciamo a volere a noi stessi, la nostra sete di risposte risulta la cartina tornasole della nostra paura del buio: insomma, un disco che si tiene perfettamente in equilibrio fra l’opera d’arte e il manifesto terapeutico di una generazione in cerca di nuovi centri di stabilità permanente.

Yassmine dimostra di essere uno tra i nomi nomi da tenere d’occhio per questo 2024, capace di fondere insieme linguaggi apparentemente distanti ma mai così alchemicamente uniti come in “Urbe”.

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Indie Pop

“Oltre”, il nuovo disco di Paduano che prova a salvarti dalla mediocrità

Conoscete Paduano? Non ancora?

Beh, allora è arrivato il momento di rimediare alla mancanza: è uscito in questi giorni “Oltre”, il secondo disco del cantautore, conferma dell’estro poetico di una penna da seguire con molta attenzione. 

Sei tracce che si susseguono con leggerezza e profondità, provando a raccontare un mondo interiore che in Paduano si apre alla collettività, alla narrazione comunitaria: c’è una sensazione di condivisione che s’innalza dalla scrittura intima dell’artista, in un connubio riuscito fra personale e generazionale, con un occhio di riguardo per quella generazione, appunto, di trentenni in cerca di riferimenti persi tra i fumi del millenium bug, e della nostra diseducazione sentimentale (sì, di questa collettività fa parte anche il sottoscritto quindi la recensione è ancora più accorata).

Tutte le canzoni sembrano riflettere su dubbi condivisi, con parole selezionate e affilate con la lima, in linea con le pretese poetiche di una penna che sa incidere, e ricucire con attenzione: c’è una chirurgica attenzione ai dettagli, in “Oltre”, che conferma quanto di buono si muova silenziosamente nel sottobosco italiano, al riparo da riflettori che, il più delle volte, sembrano bruciare il talento come falene contro i neon.

Invece Paduano riesce nel suo cono d’ombra ad illuminare tutti i punti interrogativi, lavorando al sicuro da pretese di mercato che non lo sfiorano, permettendogli – almeno per ora: non possiamo che augurargli il successo, e banchi di prova ancor più intensi per la sua “integrità” – di tirar fuori dal cilindro un’opera sincera, coerente, complessa e allo stesso tempo capace di arrivare a tutti. 

Sei canzoni che raccontano la complessità delle relazioni, dell’accettare il tempo che passa e di provare a non farsi soffocare dal turbinio del presente: un invito al silenzio, alla riflessione, a prendersi il tempo di “perdere tempo” ma in modo intelligente, con spirito autocritico e stile intellettuale. Un lavoro prezioso, che possiede i suoi slanci pop (“Argini” e “Buccia d’arancia” su tutti) senza mai perdere il contatto poetico con una materia durissima come il diamante, che traspare tra le pieghe di un disco ben prodotto e ben orchestrato. 

Una conferma su un talento da non perdere d’occhio, e nel caso da scoprire. Custodendolo con gelosa attenzione. 

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Indie Pop

La “Silhouette” di Buonforte è quella di tutti noi

Buonforte è un artista a tutto tondo, che non conoscevamo e che non abbiamo potuto fare a meno di apprezzare fin dal primo ascolto del suo disco d’esordio “Silhouette”, un lavoro denso e ben fatto, costruito sull’equilibrio efficace che separa (e unisce) pop e canzone d’autore, senza mai concedersi cali di tensione né di eleganza.

Un’opera efficace a fungere, allo stesso tempo, da manifesto generazionale e confessione personale, aprendo uno spiraglio su un’intimità fatta di piccole cose che spalancano allo stesso tempo riflessioni sui dubbi esistenziali che ognuno di noi si pone tutti i gironi: dall’amore, al senso delle cose passando attraverso la ricerca di sé stessi. E in effetti, è proprio questo che “Silhouette”, come il titolo stesso dell’album sembra volerci dire, vuole provare a fare: ridisegnare cioè i contorni di una sensibilità profonda, e allo stesso tempo desiderosa di superficie e leggerezza.

Le canzoni del disco si rincorrono incalzando l’ascoltatore in un viaggio che passa attraverso i dubbi e le certezze di Buonforte, ammantate di una musicalità che riesce a conciliare perfettamente il desiderio di ricerca poetica dell’artista con una propensione più che evidente alla melodia e al lirismo: la profondità autorale non cede il passo ad una “popizzazione” scriteriata, piuttosto è la chiave leggera scelta da Altrove (produttore di punta della scena indipendente nazionale, che ha lavorato negli anni con artisti del calibro di cmqmartina, svegliaginevra e altri) ad enfatizzare e a rendere “di tutti” il senso di un lavoro che rischiava di incagliarsi nella sua poeticità.

Silhouette”, invece, arriva al grande pubblico con immediatezza e concretezza, come solo quelli bravi davvero sanno fare: dentro, c’è la vita di Gabriele, che forse (anzi, certamente) può assomigliare alla vita di tanti, se non di tutti.

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rock

L’ossimorico e rivelatorio disco d’esordio dei Dena Barrett

Abbiamo scoperto i Dena Barrett al loro esordio, qualche mese fa, con “Hallooween”, e non potevamo di certo non dedicare alla band toscana una manciata di righe necessarie a confermare quanto di buono era già emerso all’ascolto dei primi singoli: “Immobili a ballare” è un debutto che farà parlare di loro per qualità e quantità artistica grazie ad una track list di nove brani capace di raccontare lo smarrimento generazionale di un intero popolo di trentenni in cerca di nuovi centri di gravità permanente.

Il disco d’esordio dei Dena diventa così un manifesto collettivo che in una manciata di minuti disegna i confini di un disagio storico-culturale che sembra definire, per negazione, i tratti emotivi di una collettività persa nelle proprie insicurezze: ogni canzone diventa così una ferita aperta che aspetta di essere sanata attraverso una ricerca d’amore che, in “Immobili a ballare”, passa spesso la violenza vista come strumento di azzeramento di tutto ciò che precostituito e preconfezionato.

Brani come “Usami” e “Criminale” raccontano con delicatezza pop la forza erosiva di schemi di pensiero capaci soltanto di limitare le nostre libertà, i singoli pubblicati tracciano invece il filo rosso di una narrazione che vuole essere volutamente provocatoria ed esplosiva, attenta a non filtrare alcun tipo di messaggio ma piuttosto renderne efficacemente il livello poetico attraverso una calibrata scelta di parole e immagini.

La figura femminile occupa uno spazio importante all’interno di un disco che, nella sua contemporaneità, non poteva certamente prescindere da determinate narrazioni ma soprattutto dalla necessità di modificarle: la donna diventa così specchio e allo stesso tempo silenzio assordante per uomini in cerca di protezione e affetto, anche laddove la dimensione relazionale sembra avviarsi a pieghe patologiche in linea con le dinamiche del nostro secolo brutale.

Un disco quindi che racconta l’attualità attraverso il richiamo a linguaggi e stili capaci di raccordare il rock alternativo degli anni anni anni 90 con la migliore scuola d’autore italiana: un melpot riuscito che conferma l’attitudine degna di nota di una band da non perdere d’occhio.

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rock

Tra i Clash e il Belpaese c’è il porto sicuro di LEHAVRE

Vi piace la musica che sale dalle cavità della terra, ricordando ai vostri piedi come si fa a tenere il ritmo? Il suono lontano di mille esplosioni nel cielo di Londra, mentre da un’auto che passa si sente l’eco del primo disco dei Clash? Vi piace pensare che anche il rocker più duro può nascondere un cuore tenero?

Allora, non avete altro da fare che sintonizzarvi sulle frequenze dei LEHAVRE, neonato progetto campano con non poca gavetta alle spalle e una forte necessità di correre dietro ad un tempo che fugge: “Come i Clash” è il biglietto da visita di una band che non puoi perdere di vista.

Ciao, LEHAVRE! Partiamo dalle domande semplici: da cosa deriva il vostro nome d’arte?

La ricerca del nome è l’aspetto che ci ha tormentato di più. A un certo punto c’erano le canzoni, c’era il progetto intero e persino un live alle porte, ma mancava il nome. Poi è arrivata l’illuminazione. Un film di Aki Kaurismäki, un gioco da tavolo, un porto sicuro, una squadra di calcio che in modo rocambolesco raggiunge la serie A francese. Erano tutti segnali. Alla fine quel nome, così musicale e imponente, era sempre stato sotto i nostri occhi.

Raccontateci qualcosa di voi, in modo da far scoprire ai nostri lettori chi siate. Come nasce il progetto?

Mentre tutti scrivevano canzoni in cameretta noi, impossibilitati ad uscire per il lock-down, non avevamo nulla da dire. Se non vivi non scrivi. Quando tutto è tornato alla normalità l’urgenza di scrivere canzoni è stata troppo forte, quindi io e il batterista (Marco e Lorenzo) abbiamo raccolto i cocci del precedente progetto (Kafka Sui Pattini) e abbiamo formato un gruppo nuovo, accogliendo a bordo un altro Marco. Per rispondere alla tua domanda, il progetto nasce in modo eruttivo: dovevamo buttare fuori quello che avevamo covato silenziosamente per due anni.

Avete uno stile che fonde il pop punk dei primi duemila con un ottimo gusto retrò: quali sono i vostri principali riferimenti musicali?

Arctic Monkeys per sempre. 

“Come i Clash” esplicita un approccio che sembra volersi fare manifesto: come nasce la canzone? E perché avete deciso di partire proprio da qui?

Niente ti descrive meglio di ciò che ami. E ciò che ami lo omaggi. Come i Clash è una dichiarazione d’amore, oltre che di intenti. Quale miglior modo di presentarsi al mondo se non dire “hey, ecco dove voglio arrivare ed ecco come ho intenzione di riuscirci” mentre alzi il volume della distorsione.

Sembrate però allo stesso tempo dei romantici, oltre che dei “dinamitardi”… dobbiamo aspettarci anche ballad più malinconiche, dai vostri futuri passi discografici?

Sicuramente, probabilmente non saranno ballad nel senso canonico, ma i prossimi singoli affronteranno tematiche più introspettive. 

Grazie del vostro tempo e a presto! Vi vedremo dal vivo, prima o poi?

Più prima che poi.

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Indie Intervista Pop

In piedi sopra il mare accanto a Digiovanni

Consocete Digiovanni? Non ancora? Beh, inutile dirvi che se siamo qui a chiedervelo è perché non potete più rimandare: una settimana, il cantautore livornese ha pubblicato un singolo d’esordio che ci ha fatto tornare a ben sperare sulla musica d’autore nazionale, e di certo non potevamo esimerci dal rivolgergli qualche domanda.

Digiovanni, è un piacere averti con noi! Allora, il tuo è un percorso che comincia anni fa e vanta collaborazioni importanti: come mai hai deciso di esordire solo adesso?

Ciao! Piacere mio di essere qui su Perindiepoi!

In effetti quello attuale non è un vero e proprio esordio. Lo è come cantautore ma prima di Digiovanni c’era una band che ha fatto i suoi passi: un disco, le finali di Sanremo Giovani, tanti locali italiani, le finali di Sanremo Giovani, un passaggio sul palco del Teatro Ariston e un Tour a New York (“The Manhattan Clubs Tour”) in cui ho avuto la fortuna di suonare la mia musica inedita in italiano nei club più importanti di Manhattan. 

Nel mentre ci sono state anche tante collaborazioni con artisti e persone incredibili come Gary Lucas, Steve Sidwell, la Metropole Orkest ma soprattutto Vinicio Capossela, con cui continuo ad essere in contatto. 

Quindi, come vi dicevo, non è un vero e proprio esordio. Mi piace più chiamarlo… la seconda prima volta.

Raccontaci un po’ di te: chi è Digiovanni?

Digiovanni è la parte di me che vuole avere una identità più cantautoriale rispetto al passato. Quindi Digiovanni nasce dalla scrittura della musica e dei testi. Io non potrei essere, però, Digiovanni senza Alessio Macchia, non solo il bassista in studio e nei live, ma soprattutto un mio carissimo amico e grande punto di appoggio. 

Sei di Livorno, terra di grandi artisti e cantautori. Come vivi il rapporto con la tua città? 

Musicalmente il rapporto con la mia città è…strano. Mi piace citare proprio Vinicio Capossela: “Livorno dà gloria soltanto all’esilio e ai morti la celebrità”. E’ così. 

A Livorno l’arte si respira e si vive per le strade. Tantissimi dipingono, tantissimi suonano. C’è un detto che dice “A Livorno, il peggior portuale suona il violino coi piedi” qui c’è il fascino e la condanna. Proprio per questo, e per lo spirito labronico, nessuno da soddisfazione a nessuno. Puoi aver fatto le cose più grandi ma a Livorno tutto svanisce in tre parole: “de, ecco lui…”. 

Livorno ha i pregi e i difetti di una città di provincia. Se poi provi a proporre qualcosa fuori dai cliché cittadini…. aiuto. 

Però amo follemente la mia città, non potrei vivere da nessuna altra parte. E poi c’è il mare.

Parliamo di “In piedi sopra il mare”: il tuo debutto appare come una vera e propria preghiera a te stesso, come un promemoria di qualcosa che non ti devi dimenticare di fare. E’ così?

“In piedi sopra il mare” è una via di fuga, la ricerca spasmodica di qualche breve momento di pace. 

La vita e le cose che succedono ti spingono molto a spegnere, a non pensare, essere sempre razionale. La quotidianità è tremenda, alienante. A un certo punto ho iniziato a sentire che mi mancava qualcosa, ho iniziato a non sentirmi più realmente me stesso, quello che conoscevo. Non c’è malinconia del passato nel brano ma la voglia di cercare di ritrovare una sensazione ben precisa che da troppo tempo non sento più addosso: la spensieratezza. Quello stato d’animo in cui puoi permetterti per qualche istante di non sentire il tempo sul polso e smettere di pensare, proprio come quando si sta “In piedi sopra il mare”

Con chi hai lavorato al brano? 

Ho la fortuna di lavorare con un gruppo di persone splendide che credono e si impegnano nel progetto. Mi fa piacere salutarli e ringraziarli tutti pubblicamente. 

Musicalmente, oltre che con Alessio Macchia, “in piedi sopra il mare” ha avuto la produzione di Andrea Pachetti (già produttore/collaboratore di artisti come Emma Nolde, Zen Circus, Bobo Ronderlli, Dente, ecc….). Senza di lui il brano non avrebbe mai potuto essere come è. E’ stato davvero prezioso. 

Mi fa piacere salutare e ringraziare anche gli altri musicisti che hanno registrato “In piedi sopra il mare”: il “geometra”, grande tastierista degli Zen Circus, e Simone Padovani, fantastico batterista che ha collaborato/collabora con grandi artisti come Bobo Rondelli, Emma Nolde e molti altri.

E ora? Quali saranno i prossimi passi di Digiovanni?

Intanto mi godo questa uscita che sta riscuotendo davvero un gran bel riscontro. Poi faremo altre cose fino a gennaio in cui uscirà il nuovo album. 

Quindi non vi allontanate troppo! Ci saranno molte altre novità!

Grazie per avermi ospitato, a presto!

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rock

Una sciarpa di fuoco per coprirsi dal freddo della discografia: i Malmö

Conoscete i Malmö? Non ancora? Non vi preoccupate, qui siete nel posto giusto per poter ovviare alle vostre mancanze. Esattamente come abbiamo fatto noi, una settimana fa, all’uscita del loro nuovo singolo “Sciara”.

No, non è esattamente il brano che potete aspettarvi in questi tempi di canzoni e playlist strappalacrime: a noi, qualche lacrimuccia ce l’ha strappata in effetti, ma senza il bisogno di dover cantare nemmeno una parola. Sì, perché i Malmö (che non sono proprio degli esordienti, anzi: di strada e dischi ne hanno già fatti eccome) hanno deciso di lanciarsi in un’operazione complessa e avventurosa, quella che passa attraverso la narrazione strumentale.

Un rischio, nell’era del “deficit d’attenzione”, ma allo stesso tempo il modo migliore per sfidare l’ascoltatore e avvicinarlo a qualcosa di finalmente diverso, di finalmente nuovo. Seppur dotato di un cuore estremamente antico.

Benvenuti sulle nostre colonne, Malmö! “Sciara” è un brano che non ti aspetti, nella densità dei venerdì di pubblicazione: un lavoro che non nasconde un coraggio che sembra voler prendere slancio proprio dall’anomalia di una proposta diversa… come nasce l’idea di un lavoro strumentale?

In verità in entrambi i nostri precedenti album c’era un brano strumentale ed entrambi erano la title track, quindi l’approccio a questo tipo di lavori è sempre stato nelle nostre corde. Siamo assolutamente consapevoli della scelta estrema e rischiosa nel pubblicare un brano strumentale, ma siamo anche molto consapevoli su cosa e chi vogliamo essere e il messaggio che vogliamo trasmettere.

L’evoluzione del brano è magmatica, continua: l’incedere ritmico dell’arpeggio iniziale di perde e si ritrova costantemente, seguito dal continuo sovrapporsi delle parti. Cosa volevate raccontare con questo brano?

É un brano che ha diversi momenti, quello iniziale con le chitarre classiche che riporta un po’ ai mari del Sud fino al finale ossessivo quasi tribale nel quale basso e timpani scandiscono il tempo. E’ il racconto di un’eruzione in tutte le sue fasi, dalla quiete all’esplosione!

Il nome del brano ha un’origine geografica: ce la spiegate?

Sciara (la sciarpa del fuoco) è un luogo dell’Isola di Stromboli dove la lava cola a picco nel mare. Stroboli è uno di quei vulcani che fortunatamente non ha esisti funesti e anzi le sue attività appaiono spettacolari, la contemplazione del pianeta che fa il suo corso.

Dal vivo sarà complesso portare tutta la densità sonora di un lavoro come “Sciara” e, ci immaginiamo, di un potenziale album in uscita. Avete già pensato a come portare in giro il vostro lavoro? Avete intenzione di promuoverlo dal vivo?

Questo brano anticipa l’uscita di un ep, interamente strumentale, dal titolo Zolfo.

Nell’approccio a questo lavoro abbiamo un po’ cambiato rotta, dato che nei precedenti album abbiamo sempre cercato di registrare quello che noi quattro suonavamo dal vivo. Stavolta non ci siamo posti limiti, come per esempio il grosso apporto dei timpani e delle percussioni, ma siamo già a lavoro per adattare e rendere la nuova produzione gradevole ed efficace anche in contesti live.

Malmö, grazie per il vostro tempo: quando sentiremo di nuovo parlare di voi?

Speriamo molto preso, il 20 Ottobre usciranno gli altri 3 brani dell’ep Zolfo e stiamo preparando un live in doppio set. Una prima parte dove suoneremo il nuovo lavoro strumentale e una seconda in cui faremo brani del vecchio repertorio cantato.