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Indie Pop

“è stato bello” chiacchierare con DANU

Non è semplice fare il musicista nel 2021; un sacco di “imprevisti” (di natura socio-culturale, prima ancora che pandemici: basta con questo “alibi” degli effetti del COVID-19 sul settore dello spettacolo, che è in crisi da ben più tempo che due soli anni!) hanno tagliato le gambe prima agli spazi, poi alla creatività: non si può continuare a rastrellare il fondo di un barile che sta esaurendo le sue possibilità rigenerative, ed “uscire a guardare le stelle” ora sembra essere più che mai necessario per ritrovare ispirazioni, stimoli e fiducia. Tutte parole che no, non fanno rima con “pandemia”.

Di certo, tuttavia, in estate non ci si aspetta di imbattersi in un brano che abbia il retrogusto giusto per non stuccare con i soliti “ritornelli” forzati da rime baciate sole/cuore/amore, labbra rosso cocacola et similaria: insomma, non ti aspetti – il 3 agosto – un brano come “è stato bello”, che nonostante il mood estivo non fa sudare brividi freddi anzi, rinfresca con semplicità e con naturalezza senza alcuna forzatura. Il brano si muove su sonorità da Gen Z richiamando un po’ ad Ariete, un po’ a Frah Quintale; rispetto ai precedenti tre singoli di DANU, l’arrangiamento pare più votato ad un minimal che, di questi tempi, aiuta a riportare al centro le parole, che sono calibrate, ben scelte e giuste: una poetica semplice, che aiuta a rimetterci in contatto con l’idea che una bella canzone abbia bisogno di cose vere, e non di voli pindarici arditi o di iperboli pretenziose.

DANU racconta la sua vita in tre minuti di brano che disegnano l’accettazione di una fine che sa svuotarsi di ogni rancore e di ogni rimorso: nel giro di vite che l’esistenza ci regala, non abbiamo tempo per continuare a camminare sui “pezzi di vetro” (De Gregori docet), e a volte le ferite hanno bisogno di non essere più considerate tali per lasciarsi rimarginare; insomma, DANU ci mette il cuore – che va sempre più di moda come “argomento” nelle canzoni, sempre meno di moda nello “scriverle” – e il risultato è un brano elegante, che si farà gustare anche alla fine di quest’estate pandemica.

Ad accorgersene, è stato anche Mister Spotify che, all’uscita del pezzo, l’ha inserito subito in Generazione Z, Scuola Indie e New Music Friday: un buon segnale, questo, anche per il futuro. Anche per noi di Perindiepoi, che con i gusti del colosso svedese spesso ci troviamo in aperto disaccordo.

Detto ciò, lasciamo la parola a lui: buona lettura!

Benvenuto ai nostri microfoni digitali, DANU! “È stato bello” scoprirti con il tuo nuovo singolo, “è stato bello”: ti va di raccontarci un po’ chi sei, e come sei arrivato, ad inizio agosto, a pubblicare il tuo quarto brano?

Ciao! Mi chiamo Daniele, ho 26 anni e vivo a Castelfiorentino, in provincia di Firenze

Ho iniziato a scrivere canzoni circa tre anni fa, un po’ per caso, non è mai stato nei miei pensieri. Mi sono ritrovato a passare un momento buio e ho iniziato a scrivere canzoni come sfogo,  poi ho visto che mi piaceva farlo e che mi dava soddisfazione, così ho iniziato a prenderla sul serio e mi trovo adesso ad aver fatto uscire il quarto singolo. 

Devo ammettere che è un po’ da pazzi far uscire un singolo il 3 di Agosto, l’estate è già satura di pezzi e statisticamente il brano renderà meno, ma ho deciso di non far caso ai numeri e dare retta al cuore, era importante per me far uscire il brano in questa data precisa e l’ho fatto. 

“È stato bello” ha un titolo che, in qualche modo, raccoglie l’intero senso del brano. Sembra che questa canzone sia dedicata sì ad un grande amore, ma che in qualche modo serva quasi più a te per “restituire” ad un ricordo importante la sua giusta dimensione di realtà. Insomma, quanto c’è di terapeutico nella tua scrittura?

Sì, esatto. “è stato bello“ l’ho scritta sia per lei che per me, questa canzone è un po’ la cura che ho dato a quell’amore, che tante volte ho messo in dubbio e ho rischiato di odiare. Scrivere questo pezzo mi ha fatto capire che non posso odiare ciò che mi ha fatto stare così bene per tanto tempo. Le mie canzoni sono nate come terapia, e sicuramente continueranno ad esserlo. Poi ovviamente ci saranno anche altri stimoli che mi porteranno a scrivere canzoni per scopi diversi.

Che cosa vuol dire, per te, fare musica nel 2021? Hai esordito in piena pandemia, la domanda ovviamente non può tenere conto del momento drammatico che stiamo vivendo, e che negli ultimi anni ha messo in crisi l’intero settore di cui fai parte.

Vuol dire fare uscire musica in un periodo  molto saturo, ormai tutti possono fare una canzone e tutti posso caricarla su Spotify, questo ha lati positivi perché realizzare un brano è molto meno costoso rispetto a prima, ma allo stesso tempo, se sei un emergente indipendente devi investire tanto per riuscire a farti notare. Escono migliaia di canzoni tutti i giorni, i brani sono sempre più usa e getta, hanno durata brevissima, questo, collegato anche al difficile periodo attuale fa essere il lavoro del cantautore sempre una continua incognita.

Domanda a doppio taglio, di quelle che rompono gli equilibri; “Playlist Spotify”: trampolini di lancio o strumenti di “direzionamento” del mercato – e quindi, dell’ascoltatore?

Può essere una risposta scontata, ma secondo me siamo nel mezzo;  è vero che certe volte capita che grazie all’inserimento in playlist venga scoperto un artista sconosciuto, però credo che le playlist siano selezionate dal gusto di troppe poche persone, quindi magari non sempre chi merita effettivamente di più ottiene la visibilità della playlist. C’è tantissima bella musica che passa in sordina, e non lo trovo giusto perché gli utenti finiranno per ascoltare quasi sempre gli stessi artisti. Devo dire che però ultimamente forse sta cambiano qualcosa in positivo.

Dacci i nomi di tre artisti (rigorosamente emergenti!) che dobbiamo assolutamente scoprire.

Still Charles, Roberto Jolle e Giuse The Lizia

Ciao! “è stato bello“ rispondere a questa intervista!

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Internazionale

Alla scoperta di Claire D.

In occasione dell’uscita del suo ultimo album, “Voglio vivere così”, abbiamo fatto qualche domanda alla cantautrice Claire D. riguardo alla sua storia musicale e al percorso ricco e denso che l’ha portata, oggi, alla pubblicazione di un disco dall’impronta fortemente femminile; un grido d’identità che rivendica per sé stesso la natura del manifesto, e allo stesso tempo dell’album di ricordi.

Insomma, una dichiarazione in poesia che trova spinta nel timbro e nell’estro di una voce che, attraverso gli anni, ha saputo reinventarsi raggiungendo un equilibrio funambolico tra passato e presente, senza smettere di guardare al futuro.

Buona lettura!

Ciao Claire, benvenuta su Perindiepoi. Scegli tre aggettivi che raccontano, in qualche modo, il tuo disco. E diccene anche uno, di aggettivo, che proprio non c’entra nulla con “Voglio vivere così”.

Ciao… direi che sono i seguenti:

  • Intenso
  • Emozionante
  • Raffinato 

E l’aggettivo che non ha nulla a che fare è senz’altro “Banale”.

Come sempre, ad ogni giro di boa, tocca fare il recap del passato. Questo è il tuo primo disco da solista dopo anni sui palchi e in studio: cos’è cambiato da quando hai iniziato e cosa, invece, è rimasto uguale?

Ritengo sia cambiato radicalmente il mio approccio nei confronti di me stessa e del ruolo di interprete e al contempo di autrice che adesso sento di vivere  con maggior consapevolezza. Tuttavia e’ rimasto immutato nel tempo il mio entusiasmo, la voglia di imparare, di emozionarmi.

“Voglio vivere così” è un disco complesso, che riesce a restituire all’ascoltatore una sensazione di leggerezza quasi virtuosa ma allo stesso tempo lo inchioda all’ascolto, costringendolo a pensare ed attivare i circuiti neuronali, fosse solo per apprezzare appieno la commistione di atmosfere e generi che il disco propone. Come nasce il desiderio di un azzardare un lavoro simile? 

“Voglio vivere così” nasce dal desiderio di assecondare il mio animo creativo, che in quanto tale può esprimersi a pieno soltanto sperimentando la diversità, indagando la molteplicità delle vie, dei percorsi sonori che di fatto sono il riflesso delle molte sfaccettature che albergano in me come del resto in ogni essere umano. Siamo nati per esperire costantemente il mondo che ci circonda, i colori , sapori, semplicemente per vivere le esperienze che ci pervadono e che in quanto variegate non possono che essere tradotte, a loro volta, in forme e linguaggi differenti.

Swing, jazz, canzone d’autore sono solo tre degli ingredienti del tuo disco d’esordio. Da dove viene musicalmente Claire D.?

Claire D. sin da piccolissima ha respirato ottima musica, suonata dal vivo da mio padre (pianista autodidatta) cantata da mia madre, interprete appassionata, e poi riprodotta tramite vinili e musicassette disposte su scaffali traboccanti di ogni genere. Fausto Papetti, Richard Clayderman, Mia Martini, Dean Martin, Bonnie Bianco, Pat Boone, Barbra Streisand erano i più gettonati nei miei primi anni di vita. Poi in adolescenza è stato il momento in cui ho scoperto ed amato molti i grandi del cantautorato italiano, Lucio Battisti, Lucio Dalla, De Gregori, Claudio Baglioni, Pino Daniele, Franco Battiato per poi approdare ad ascolti più maturi con NOA, Tracy Chapman, Natalie Cole, Ray Charles, Dulce Pontes. Avevo allora e conservo ancora una grande passione per il musical, non a caso le mie primissime performance vertevano sul repertorio di tutti i lungometraggi Disney, tanto per cominciare per poi abbracciare il musical di Broadway , della  commedia musicale (italiana e straniera). Adoravo interpreti quali Julie Andrews, Julie Garland, Hovard Keel, Kathryn Grayson. Negli ultimi anni ho riscoperto il fascino e l’intensità della musica siciliana, quella di Rosa Balistreri in particolar modo.

Certo che possiamo dire che “Voglio vivere così” è un disco dedicato alle donne. La tua dote vocale, tra l’altro, deriva da un’eredità matrilineare, come si legge nelle note del tuo disco. Insomma, la tua famiglia pare essere stata una fucina stimolante per il tuo talento. Ci regali qualche fotografia dal passato, qualche aneddoto sulla tua infanzia/adolescenza musicale?

Durante i momenti di festa, quando la famiglia si riuniva ricordo che spesso ci si lasciava travolgere in canti all’unisono seguendo mio padre al piano o mia nonna Carolina, nonna paterna, che cantava le canzoni romantiche degli anni trenta. Ricordo con piacere che venivo spesso scelta ed inserita nella rosa dei cantori che dovevano esibirsi  durante le messe in scena scolastiche, i saggi o le feste di piazza. A 10 anni, insieme a mia madre, feci parte del coro polifonico parrocchiale e ricordo ancora palpabile la magia che si respirava quando per Natale un anno eseguimmo la “Missa Pontificalis” di Lorenzo Perosi.  

La cantautrice Claire D. in uno scatto promozionale

Proviamo a fare un gioco: raccontaci “Voglio vivere così” utilizzando nove citazioni, una da ogni brano. Difficile, eh!

  • Voglio Vivere così, correndo, gridando piangendo, sognando.
  • Io sono altro e altrove, e non importa quando, non importa dove, non importa come. 
  • Se bastassero sotanto due parole ti avrei detto tutto quello che non sai. 
  • Tra le mie braccia , tremanti ma certe, con te adesso ho tutto, non mi manca più niente.
  • Cerco un letto per amare che profumi di lilla.
  • Portami li dentro, nel tuo mondo, perché il  mio tempo sia poesia.
  • Liberi, con la voglia di fare festa, una musica nella testa ci accompagna e non va più via.
  • Il tempo passa, il tempo vola, e allontana nostalgie, lascia qualche nodo in gola, ma cancella le bugie.
  • La nostra più profonda essenza adesso, soltanto adesso, trova il coraggio di far schiudere i propri semi.

In conclusione di questa nostra intervista, se ti va, dicci qualcosa che non hai mai detto prima e che oggi hai voglia di rivelare ai nostri lettori.

Relativamente la realizzazione del disco non ho mai detto che durante le prime sessioni di registrazione ero ancora in piena fase d’allattamento del mio terzo figlio e dopo un po’ di ore in sala d’incisione mi toccava scappare a casa ad allattarlo. E’ stata un’avventura conciliare i miei doveri di mamma con quelli di cantante ma sono riuscita fortunatamente a conciliare le due cose anche in quell’occasione.

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Pop

Max Casali: il mio “St3rzo” è un calembour

Il 4 giugno 2021 è la data che sancisce il ritorno discografico del cantautore romano Max Casali con “St3rzo“, a cinque anni di distanza da “Secondo a…nessuno!” e a dieci da “Per certi versi”.

Noi abbiamo colto l’occasione di farci raccontare il suo nuovo album, buona lettura!

Ciao Max benvenuto! Complimenti per l’uscita del tuo album “St3rzo”, ti va raccontarci qualcosa su questo progetto?

Certamente! Anzi, vi ringrazio per questa occasione che mi date. E’ un progetto forse un pò fuori epoca, poichè far uscire 13 canzoni non è lo standard richiesto da ascoltatori sempre meno pazienti di far sostare le orecchie per tentare di ca(r)pirne i significati più reconditi; però è intriso di onestà: quella che perseguo da sempre per non essere banale e, soprattutto, per portare rispetto a chi ascolta le mie canzoni, donandogli il mio impegno….Massimo.

Quale tra le 13 tracce ti emoziona di più?

Spesso è molto difficile fare delle scelte, però c’è un dato eloquente che ti dà un’indicazione precisa: quando, nel momento che la sto incidendo o ri-ascoltando mi percorre un brivido sulle braccia. Indicherei Popolo di maghi”, riproposta con un finale di violini più lungo e maestoso e poi “Segnali di noi(a)” perchè in sala d’incisione ho provato l’emozione di sentirmela addosso con  passione ed ardore a tal punto che è stata l’unica della serie “buona la prima…”

Parlaci del significato del titolo “St3rzo”!

Per citare un francesismo, è un “calembour”, un gioco di parole che racchiude il doppio significato che trattasi del mio Terzo album, ma poi basta aggiungere una “S” per evidenziare che conterrà una tratta di virata stilistica, soprattutto nella parte centrale del disco, quella che va da “Bulli e rupe” a “Manipo(po)lazione”

Dove ti piacerebbe suonare live questo album?

Più che concerti, la dimensione migliore per presentare il disco la vedrei con degli show-cases nei centri commerciali: meno pubblico per poter avere il piacere di scambiare parole con gli estimatori ed accontentare, cosi, un pò tutti. 

Cos’hai in programma ora?

Avvicinandosi le ferie per tutti, questo primo mese di uscita è stato come dare un’anteprima dell’album ma poi a settembre uscirà il disco anche in formato fisico e potremo, cosi, riprendere la sfera promozionale con testate, radio e tv. Inoltre, non ignorerò chiaramente le voci di altre ispirazioni, pronto a mettere nero su bianco altre tematiche . Buone ferie a tutti e vi aspetto dopo l’estate.

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Indie

Artegiani: “racchiudo le mie emozioni dentro alle canzoni”

Lei 1 Lei 2” è una canzone d’amore e di ripensamenti ed è anche il nuovo singolo di Artegiani, fuori in questo caldo venerdì di luglio.

La prima canzone ad uscire per l’etichetta spezzina Revubs Dischi, un singolo che sicuramente sarà il primo di una lunga serie. Noi ce lo siamo fatti raccontare!

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Ciao Artegiani, benvenuto! Raccontati con tre aggettivi, anzi due, per chi ancora non ti conosce!

Bellissimo e bravissimo (ride ndr). No scherzo, ho appena chiesto ai miei amici e hanno concordato gioviale e ironico.

“Lei 1, lei 2” è il titolo del tuo nuovo singolo uscito il 2 luglio per Revubs Dischi, ti va di raccontarcelo?

Assolutamente, “Lei 1 Lei 2” è un pezzo d’amore e di indecisioni, che ho scritto per mettere un po’ a posto le idee e perché quando le persone mi scoppiano dentro spesso mi viene da mettere quelle emozioni dentro alle canzoni.

Ci sono dei generi o degli artisti ai quali ti sei ispirato maggiormente specialmente negli ultimi mesi?

Molti, in Italia in particolare Motta e Vasco Brondi, fra gli emergenti Davide Petrella, Generic animal e Tommy Dali, mentre in generale alcuni artisti che si muovono fra il pop e l’hip hop in un certo modo ibrido e slegato dai canoni usuali mi attirano molto. Per esempio CarlxFranco, Izi, Tauro boys, ma anche Ginevra, Mara Sattei, Bartolini, Venerus.

Oltre alla musica ci sono delle immagini fotografiche, pittoriche e perché no, filmiche, a cui ti ispiri maggiormente?

Alcune in particolare no, ma ci sono delle fotografie o anche delle copertine di film oltre che pellicole vere e proprie che mi catapultano in mondi che mi scaturiscono emozioni e sensazioni fortissime. Sono ispirazioni grandissime quando accade.

Saluta la redazione di Perindiepoi con un messaggio che vuoi lanciare e a cui tieni molto!

Ciao ragazzi e lettori di Perindiepoi, impariamo a stare bene!

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Pop

Tra “kooks” ci si intende: una chiacchierata con gli Unkle Kook

Mica capita tutti i giorni di trovarsi a tu per tu con un brano come “Surf in Maremma”: disabituati come siamo agli smottamenti emotivi, certo dev’essermi sembrata una novità quasi inedita ritrovarmi alle prese con una sensazione di irrefrenabile movimento (che partiva dallo stomaco per diramarsi agli arti, senza però desistere dalla conqusita – riuscita – del cuore e del cervello) che mi ha costretto, sin dal primo play, ad innamorarmi di questo quintetto di folli “kooks” (che in linguaggio tecnico da surfisti significa una cosa non proprio carina, a differenza della musica proposta dalla band) che il venerdì di uscita mi ha saputo inaspettatamente regalare.

Per questo, una volta palesatami davanti la possibilità di andare più “a fondo” con gli Unkle Kook ho colto la palla al balzo: un’intervista non poteva che essere il modo migliore per capire chi avessi davanti. E chi ho davanti, a questo giro, di certo non riesce ad essere “contenuto” nelle poche domande di questo improvvisato simposio; tuttavia, gli spunti per capire di che pasta siano fatti gli Unkle Kook ci sono già tutti: per il resto, c’è Spotify (per fortuna, o purtroppo) e i palchi di tutta Italia, residenze itineranti della band surf/jazz/psyco rock più eccentrica che potrete scoprire oggi.

Ciao Unkle Kook, tre aggettivi utili a descrivere la vostra musica e uno che invece dice esattamente il contrario rispetto a ciò che siete, a ciò in cui credete.

Bagnata, ironica, facile. Il contrario di ciò che siamo? Se deve essere un aggettivo direi “noiosi”, anche se non ti giuro che sia esatto. Ciò in cui crediamo poi… non posso risponderti perché non siamo noiosi.

Il vostro è un esordio discografico che viene da lontano, con esperienze live di un certo tipo. Insomma, di pubblico e di artisti ne avete visti parecchi, in questi anni. Cosa ne pensate della scena, e che futuro credete possa avere un’idea di musica come la vostra, così incentrata sulla dimensione del live?

Probabilmente è da tanto tempo che non si sente così forte il bisogno di musica dal vivo ed in generale di tutto ciò che coinvolge i nostri corpi, da troppo oramai distanti e disabituati al contatto e alla vicinanza. Abbiamo tutti voglia di vibrare insieme e cosa c’è di più trascinante di una ritmica sfrenata e primordiale, con sferzate di chitarre riverberate e sassofono ululante? Ci sarà sempre bisogno di rock’n’roll e per farlo bisogna sudare, insieme.

Ecco, a proposito del live: un vostro pensiero/opinione/giudizio sulla situazione del settore dello spettacolo al netto del disastro pandemico che ha messo in ginocchio un’intera industria.

Speriamo che questa tragedia diventi una lezione; che sia servita ad imparare che senza musica e arte si può sopravvivere, ma abbiamo bisogno di vivere. Sarebbe bello che tutto questo servisse anche a creare le condizioni, a livello fiscale e culturale, per cui il lavoro del musicista sia un percorso dignitoso e rispettato, possibile per tutti coloro che decidono di dedicare la propria vita a un’arte complessa ed essenziale come questa.

“Surf in Maremma” è un brano che raccoglie voci diverse, e affida a chitarre e sax le redini di una canzone che sembra quasi divisa in livelli, in strati. Quali sono le vostre principali influenze, e come nasce il titolo del brano?

Il nostro è un gruppo di cinque musicisti. Ognuno di noi porta il suo sound che è fatto di un’infinità di musica e di esperienze diversissime. Certamente uno degli idoli degli Unkle Kook è Dick Dale, ma anche Little Richard, o Erkin Koray, la musica balcanica o psichedelica, il punk, o quel brano che ancora non abbiamo ascoltato. “Surf in Maremma” è un titolo direi didascalico, nel senso che descrive proprio quello di cui parla: una vacanza al mare, in Toscana, dove da bravi “kooks” il surf è stata un’esperienza piuttosto fallimentare, e con l’acqua alle caviglie e le chitarre in braccio abbiamo scritto questo brano.

Ora, ovviamente, confidiamo che non vogliate fermarvi, anzi, che presto ci darete in pasto qualcosa di ancor più corposo di questo esordio piacevolissimo ma fin troppo breve! Ci sono programmi in vista?

Abbiamo pronti in canna una bella serie di brani per accompagnarvi nelle prossime settimane. Sentirete! E in autunno contiamo di tornare in studio a buttar giù un’altra quintalata di musica divertentissima.

Salutateci facendoci una promessa che già sapete che non manterrete!

Ciao a tutti dagli Unkle Kook! Vi promettiamo che quando ci verrete a sentire dal vivo potrete godervi lo spettacolo comodamente adagiati sulle vostre seggiole. Rock’n’roll!!!

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Indie Internazionale Pop Post-Punk

Bibopolare, massaggio cardiaco per un cuore al collasso

Mica facile tornare alla vita, ricordarsi come scrivere di musica dopo così tanto tempo che non lo fai. Le bollette da pagare, gli affitti da sbarcare, il dentista da saldare e una liquidità alienante che ci sta condannando – in modo sempre più disperato e tragicamente “resiliente” – ad assumere le forme di contenitori che non si lasciano individuare ma che, ciononostante, danno una direzione sempre cangiante al nostro existere et cogitare, insomma, la frenesia di una quotidianità sempre più isterica mi ha tenuto, negli ultimi mesi, lontanissimo da quello che più amo fare: scoprire cose nuove, ascoltare musica che emozioni, dare un senso a tutto questo grigiore che attanaglia l’entusiasmo ed uccide la fantasia.

Ci voleva in effetti un disco come quello di Bibopolare – eccentrico cantastatorie (o meglio, auto-terapeuta lucano: ascoltate il suo ultimo lavoro, e capirete cosa intendo) originario di Potenza ma con base a Bologna – per farmi riprendere in mano il filo del discorso, restituendo un po’ di speme a questo corpo lasso e stanco di immondizie musicali (cit.) e di direttori artistici che sarebbero dovuti andare in pensione già quarant’anni fa (ai tempi, insomma, del celebre disco “Patriots” del grande Franco Battiato) e che invece, travestiti da novelli hipster e produttori rigenerati (Frank Zappa docet), continuano a vendere la rivoluzione a colpi di mercato.

Perché si sa, la moda di essere ribelli non smetterà mai di far arricchire editori e discografici sempre ben attenti ai bisogni dei più giovani, che altro non sono che «splendide invenzioni – come direbbe Alessandro Carrera – del XXI secolo» e – da almeno sessant’anni, quando cioè il boom economico ha scoperto il “tempo libero” – pacchetti azionari deambulanti per l’industria dell’intrattenimento.

Bibo, invece, dal bagno di casa sua (sì, quello che sentite nel disco è lo splendido riverbero naturale che si può apprezzare solo nel gabinetto della propria abitazione) ha registrato un disco diverso, che parla di tutte quelle cose che ho elencato sopra e che negli ultimi mesi mi hanno succhiato via a forza la voglia di ascoltare, di scrivere e di crederci: dall’ascolto denso e (volutamente) faticoso di “Com a na crap” – letteralmente, “come una capra” – emergono richiami alle radici e slanci verso un recupero del passato tanto retrò da sembrare futuristico, tanto originario da diventare originale.

E in effetti, “Com a na crap” è un disco che non possono capire tutti, che in playlist non finirà mai perché invece che consolare l’ascoltatore lo prende a pugni, con la crudezza di una poesia amara avvalorata dal filtro sempre malinconico e nostalgico della scelta dialettale, ben lontana qui dal populismo dello stornello o della tarantella (anche se, ben s’intende, nulla vi sarebbe stato di male in caso contrario) ma piuttosto vicino al cinismo onirico di un Trilussa (anche se qui il dialetto usato non è quello romano, ovviamente, ma il lucano).

Bibo racconta di dolori che appartengono alla mia, alla nostra generazione, irrisolti cronici a cavallo tra un passato da inadatti alla responsabilità e un futuro che ci obbliga al protagonismo, senza concedere margini di errore ad un popolo di eterni adolescenti immobilizzati dalla costante svalutazione della propria virtù, dalla disistima inflazionata da una crisi prima valoriale e poi economica, da una licenza di sopravvivenza che ci ha disimparato a vivere davvero.

Insomma, in “Com a na crap” Bibopolare racconta tutti i motivi che mi hanno spinto, come dicevo, a desistere dall’ascoltare musica nuova, dal cercare «nell’inferno ciò che inferno non è» e dal credere che possa servire a qualcosa; allo stesso tempo, nello stesso disco, si annidano tutti i motivi necessari a non smettere di resistere, a non cessare di lottare.

Sapere di non essere soli, in questa disperata trincea, fa bene al cuore rimettendolo al proprio posto, dov’è sempre stato. Qui, trovate qualche domanda fatta all’artista, che ha risposto con la sua proverbiale e serafica semplicità. Su tutte le piattaforme d’ascolto digitale, invece, trovate “Com a na crap”, il disco d’esordio di Bibopolare.

Fatevi del bene: sudatevelo; ne vale la pena.

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Internazionale

Abbiamo intervistato Papa Fral

Arriva l’estate e con essa anche i singoli più adatti alla stagione. Non fa eccezione Papa Fral, rude boy capitolino che propone una dancehall decisamente interessante e dal flow unico. “Downtown” è il suo nuovo singolo, recentemente pubblicato per Mitraglia Rec e con il quale l’artista romano non lascia dubbi sulla qualità della sua proposta. Ne abbiamo parlato con lui.

Ciao Papa Fral e grazie per il tuo tempo! Prima di tutto raccontaci com’è fare dancehall in Italia.

Grazie a voi, è un piacere per me!
Fare Dancehall in Italia a volte è tremendo, come per molti altri generi. La fatica principale è quella di riuscire a superare i dogmi dei puristi del genere che spesso storcono il naso quando il loro genere preferito viene mescolato ad altro, cosa che faccio puntualmente.
Ci sono anche numerosi lati positivi, perché essendo un genere poco esplorato nel nostro paese, almeno negli ultimi anni, rimane impresso nella mente della gente che lo sente per la prima volta, vedo questo soprattutto durante i live. È sicuramente una strada in salita, ma si balla, quindi va bene così!

Da persona e da artista, cosa ti lega a questo genere e, più in generale, alla Jamaica?

Sono le emozioni che mi legano a questo genere e quindi alla Jamaica, come ad altri posti.
Adoro quell’isola perché è riuscita a ispirare più di metà della musica mondiale, me compreso.
Dopo essere stato lì ho capito anche l’approccio autentico che la Jamaica ha con la musica e me ne sono definitivamente innamorato.

Passiamo a Downtown, il tuo nuovo singolo. Flow, testo e base pazzeschi per una traccia che potrebbe diventare davvero una hit! Da quale di questi tre elementi sei partito per farla nascere? 

Se dovessi metterli in ordine direi flow, base e testo. Avevo un flow in mente, in maniera molto vaga; quando king The Eve ha composto il riddim il testo è uscito da solo.

Pensi che il 2021 sia l’anno buono per la dancehall in Italia? O reputi si debba ancora fare parecchia strada prima che il genere diventi più main?

La musica in generale dovrà faticare anche quest’anno ovviamente e si dovrà aspettare. Se dobbiamo andare ad una dancehall per stare seduti non ha senso, questo è chiaro!


Con quale artista italiano ti piacerebbe collaborare? Senza distinzione di generi. 

Dipende, adoro fondere il mio stile con altri generi, quindi potenzialmente con quasi tutti gli artisti validi.
Mi piacerebbe sicuramente collaborare con Clementino, i Sud Sound System, Vacca ed altri. Sicuramente una combo con Brusco è uno dei miei sogni nel cassetto da sempre, ma su questo non vi dirò assolutamente nulla per ora…

Per concludere: dove possiamo seguirti per non perderci i tuoi prossimi passi?

Sicuramente sui social, Instagram, Spotify, YouTube…
Ma principalmente dovete venire ai live perché voglio vedervi tutti sotto al palco.
Rimanete in ascolto perché sta per esplodere una bomba!

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Indie Pop

Francesco Pintus resta “Fuori fase” e fuori casa

Nato in Calabria, cresciuto in Campania e vive in Veneto, stiamo parlando di Francesco Pintus, cantautore che ritorna nel mondo della musica indipendente con il suo nuovo singolo “Fuori Fase”, fuori dal 4 giugno.

Il testo nasce da mille domande che affollavano la testa dell’autore in un momento particolare della sua vita, e altrettante sono quelle che gli abbiamo posto. Non perdetevi le risposte!

Ciao Francesco! Sappiamo che non ti piace darti con dei nomi che non sono i tuoi, come i nomi d’arte, ma non possiamo fare a meno di chiederti quali sono le cose che ti mettono fuori fase!

(ride ndr) Ottima partenza! È un concetto molto variabile. Si può essere fuori fase per un motivo in particolare che ti ha creato quella sensazione o per una situazione generale in cui si sta galleggiando. Ti stupirò dicendoti che adesso non mi sento così fuori fase, proprio nel momento in cui scrivo. Più in generale mi mette davvero fuori fase l’incongruenza tra quello che faccio e quello che penso vorrei fare, non penso esista concetto più semplice.

Fuori fase” è anche il titolo del tuo singolo desordio, un singolo che avanza per domande, come nasce dunque lidea del testo?

Nasce proprio per dare concretezza a delle domande che, nel periodo in cui ho scritto la canzone, mi frullavano per la testa. Scrivo spesso quello che penso per centrare meglio le cose, guardarle nero su bianco aiuta, si sa. Quindi il testo era, in realtà e all’inizio, un elenco di domande che mi stavo ponendo e che ogni giorno appuntavo sulle mie note. Poi, come capita delle volte, ho intravisto qualcosa di musicale e ho iniziato a lavorare sulla canzone.

Andando invece alla parte musicale, come è avvenuta invece tutta la parte di produzione del singolo con Fabio Grande e Pietro Paroletti?

Lavorare con Fabio e Pietro è stato interessante e soprattutto super formativo, per chi come me lavora anche alle produzioni dei brani. Sono arrivato in studio con dei provini suonati interamente a casa e da lì siamo partiti, per me era fondamentale partecipare al processo di produzione: volevo suonare personalmente il mio disco (insieme a loro) ma avevo bisogno di una mano vista la mia poca esperienza in studio e così è stato.

C’è un genere” musicale che idealmente riporti anche nella tua musica o la creazione musicale resta totalmente spontanea?

La produzione del singolo è avvenuta contestualmente alla produzione di tutto il mio primo disco, che ancora non so bene quando uscirà, ci vorrà del tempo immagino.

No, in fase di scrittura non ho mai vincolato le canzoni a un qualsiasi tipo di genere o categoria. Preferisco la scrittura spontanea, lasciando magari spazio alle mie influenze musicali in maniera più diretta quando lavoro alle produzioni. Poi credo sia fisiologico che anche nel processo di scrittura confluiscano un po’ di ascolti ossessivi che ho avuto e che ho, ma lascio che arrivino naturalmente.

Lasciaci con tre brani che sono nella tua playlist del momento e che dovremmo assolutamente ascoltare!

Purtroppo, faccio fatica a ragionare per brani e ahimè non ho una playlist personale, quindi vi lascio i tre dischi che sto ascoltando in queste settimane: Xo – Elliot Smith, Zeno – I Quartieri, Smoke ring for my halo – Kurt Vile

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Indie

Blue è il colore primario di Boetti

A una settimana dall’uscita del loro primo album “BLUE“, abbiamo intervistato i Boetti, duo adrenalico e rockettaro che ci racconta nel dettaglio il loro nuovo progetto.

Ciao Boetti, benvenuti! Presentatevi a chi ancora non vi conosce, magari proprio attraverso un’opera dell’artista Boetti!

Siamo un duo, veniamo da Prato. Damiano è penna, voce e chitarra; Meti batteria. Ci piacerebbe lasciarci descrivere da “Alighiero E Boetti”, perché rappresenta il senso di doppio interiore (ma anche di unità binaria) che caratterizza questo progetto. Boetti è un feticcio, un’entità che racchiude entrambi e attraverso la quale possiamo esprimere cose che da soli, come singoli individui, altrimenti non saremmo riusciti ad esprimere. In più si tratta di un’opera visiva, ma che è costituita solo da parole (di qui l’importanza che diamo al testo); una tela realizzata in Persia, dalle ricamatrici e artigiane dei tappeti, e una parte del nostro DNA viene proprio da lì, dall’oriente.

Il 28 maggio pubblicate finalmente il vostro primo album, il vostro umore è ancora blue?

La gioia che stiamo provando, almeno quella potenziale, è qualcosa davvero di inimmaginabile. Ma purtroppo siamo delle persone che ancora non riescono a godersi il “qui e ora” di certi momenti. Questo disco è la base da cui ripartire subito alla conquista dello step successivo. Dentro di noi siamo sempre in viaggio.

Ma andiamo più nello specifico: qual è la motivazione che si trova dietro alla scelta del titolo?

Tutte le canzoni di questo album rappresentano momenti di dolore, fallimento e frustrazione. È una cosa di cui non avevamo troppa coscienza durante la scrittura, ma che abbiamo realizzato praticamente alla fine dei lavori. Per questo, nonostante abbiamo provato a creare una sorta di altalena musicale-umorale anche nella scelta della tracklist, alla fine ci è venuto naturale definire i pezzi per identità e non per differenze.

Qual è secondo voi la canzone che meglio rappresenta l’anima del disco?

Forse “Boetti blue”. È quella che chiude il disco, l’ultima che abbiamo registrato, l’unica che abbia quella consapevolezza complessiva di cui sopra. Rappresenta un po’ la chiusura del cerchio: il suono diventa frastuono, la voce un urlo.

Ora che i concerti sembrano essere possibili, avete già fissato qualche data in cui potremmo venirvi ad ascoltare?

Stiamo lavorando duramente al calendario estivo, anche se sappiamo (e speriamo) di poter guardare con più fiducia al prossimo autunno inverno. Sicuramente non mancherà qualche anteprima, ma per scaramanzia non diciamo nulla. Dita incrociate e aggiornamenti da seguire sui nostri canali social.

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Indie

Videointervista a Federico Cacciatori

Veste di colori” è il nuovo singolo di Federico Cacciatori, artista che cerca di svestirsi, tramite la sua musica di tutti quei pregiudizi e apparenze di cui spesso ci si appropria quando non si riesce ad essere sé stessi nel mondo.

Un singolo strumentale, che sembra essere stato scritto per un film, diventa la perfetta colonna sonora per raccontare la storia di un cambiamento, di una svestizione (se vogliamo) dalle maschere e del raggiungimento invece di una consapevolezza che soltanto quando si riesce ad essere autocritici si può effettivamente raggiungere.

Ma lasciamo che sia l’autore stesso a presentarsi, nell’intervista qui sotto, e a presentarci quella che è la sua nuova uscita che vi consigliamo caldamente di ascoltare, magari ad occhi chiusi e cercando di immaginarsi in luoghi lontani dalla propria routine.