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Scaramuzza: “L’assenza è uno spazio vivo, dove si nascondono emozioni non dette e riflessioni intime”

AMEVOX non è solo un EP: è una soglia da attraversare in silenzio, dove la voce di Scaramuzza vibra più che cantare, accarezza più che colpire. In quattro brani essenziali e stratificati, l’artista veneziano esplora la fragilità come forma di resistenza, l’empatia come spazio politico, l’ansia come figura viva.

La sua voce resta nuda, immersa in paesaggi sonori che mescolano elettronica minimale e strumenti reali, in un equilibrio sempre instabile e profondamente umano. Abbiamo fatto qualche domanda a Scaramuzza per entrare nel cuore di AMEVOX, parlare di silenzi, immagini, corpi, e di quella voce che “non chiede il permesso, ma resta”. Un viaggio che non offre risposte, ma lascia segni precisi, come una mano appoggiata su una parete che sta per crollare.

In tutto l’EP si percepisce una grande attenzione al non detto, ai silenzi, agli spazi vuoti tra una parola e l’altra. Come lavori sul concetto di “assenza” in musica e quanto è importante per te lasciare delle zone d’ombra nei brani?

L’assenza è uno spazio vivo, dove si nascondono emozioni non dette e riflessioni intime. Lavoro molto sui silenzi perché permettono alla musica di respirare e all’ascoltatore di entrare dentro il brano. Lasciare zone d’ombra significa dare spazio all’interpretazione e all’empatia. Per me, il non detto è spesso più potente delle parole stesse.

In “AMEVOX” c’è una spiritualità laica, un desiderio di resistere anche quando non ci sono certezze. Quali sono le tue radici emotive o culturali che ti hanno portato a cercare questo tipo di forza così sottile?

Le mie radici sono fatte di fragilità vissute e di una costante ricerca di senso nel caos. Crescere in un contesto che valorizza l’introspezione e il racconto personale ha influenzato molto il mio modo di sentire. La spiritualità laica nasce dalla necessità di trovare un appiglio interiore, senza risposte facili. È una forza sottile, che si nutre di dubbi e di speranza insieme.

Lavorare con la propria vulnerabilità può essere rischioso, soprattutto in un mondo musicale che spesso premia l’estetica della sicurezza. Hai mai avuto paura che questa sincerità venisse fraintesa?

Sì, la paura c’è sempre, perché mostrare la vulnerabilità espone al rischio di essere fraintesi o giudicati. Ma ho capito che nascondersi dietro un’immagine sicura non è la mia strada. La sincerità, anche se fragile, crea connessioni autentiche. Preferisco rischiare di essere vulnerabile piuttosto che perdere la mia verità. È un equilibrio delicato, ma necessario.

A livello di sound design, ogni brano ha una sua architettura sonora precisa, fatta di texture, respiri e dettagli. Come avviene il tuo processo creativo con i produttori?

Il processo creativo con i produttori è molto collaborativo e fluido. Partiamo sempre da un’idea o un’emozione da tradurre in suono, poi sperimentiamo insieme con texture e dettagli. Mi piace lasciare spazio all’improvvisazione, soprattutto nei respiri e nelle pause. Ogni suono è scelto per amplificare il racconto emotivo del brano. L’obiettivo è costruire un’atmosfera che sia coerente e coinvolgente.

Spesso usi immagini concrete – la pioggia, le case, la vipera, l’alba – per raccontare esperienze intime. Quanto c’è di autobiografico in questi simboli e quanto invece è costruzione narrativa?

Gli elementi concreti nascono sempre da esperienze reali, ma si trasformano in simboli universali. La pioggia, la vipera o l’alba diventano metafore per emozioni che tutti possono riconoscere. C’è un equilibrio tra autobiografia e costruzione narrativa: parto dal vissuto ma lascio spazio all’immaginazione. Molte voltre parto anche dipingendo, mi aiuta a focalizzare.

“AMEVOX” non è un disco “facile”: chiede ascolto profondo, presenza, attenzione. Ti interessa come verrà percepito dal pubblico o credi che un disco debba solo rispecchiare chi lo ha scritto?

Per me un disco deve prima di tutto essere autentico, rispecchiare chi lo ha scritto senza compromessi. So che “AMEVOX” richiede un ascolto attento e non sempre sarà facile, ma è proprio questa profondità che voglio offrire. La percezione del pubblico conta, certo, ma non può diventare un limite. Preferisco creare spazio per chi vuole davvero entrare nel mio mondo.

La voce, nel tuo EP, non è solo timbro: è corpo, fragilità, testimonianza. Ti capita mai di riascoltarti e riconoscere emozioni che nemmeno pensavi di aver lasciato entrare in quel momento?

Sì, spesso riascoltarmi è come incontrare una parte di me che in quel momento era nascosta o inaspettata. La voce registra emozioni genuine, anche quelle più sottili che non sempre riesco a cogliere mentre canto. È una scoperta continua, e a volte mi sorprendo di quanto possa essere sincera e fragile. La voce diventa così un diario emotivo vivo e in evoluzione.

L’EP si chiude con “HO VOCE ANCORA”, che sembra un finale ma suona anche come un nuovo inizio. Questo brano anticipa in qualche modo dove stai andando musicalmente?

“HO VOCE ANCORA” è un ponte tra ciò che ho raccontato finora e quello che verrà. È un finale aperto, che lascia spazio a nuove esplorazioni e sperimentazioni.

Musicalmente sento di voler continuare a unire l’intimità del cantautorato con l’elettronica, ma con una consapevolezza più profonda. Sto cercando il mio suono vivo e penso di essere in un bel processo di stimoli. Questo brano è la promessa di un percorso in divenire.

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Indie Intervista Pop

Un caffé sulla laguna con Scaramuzza

Non è mica facile, e chi legge i resoconti delle mie immersioni nelle profondità della scena lo sa, non è mica facile non farsi prendere dalla “fame d’aria” quando ci si lascia naufragare – un po’ per adrenalinica curiosità, un po’ per una strana forma di personalissimo masochismo – nelle spirali vorticose del vaso di Pandora chiamato volgarmente “release friday“, girone infernale dantesco dal quale il viaggiatore sprovveduto finisce per farsi risucchiare fino all’epicentro di un tifone (della durata di qualche giorno, non che siano fatti per “durare”, i rovesci discografici di oggi…) fatto di ritornelli – se non uguali – simili e simili – se non uguali – disperazioni pop a buon mercato.

Succede quindi che, boccheggiando boccheggiando, ci si imbatta in salvagenti che spesso hanno forme che non ti aspetti, come la dolcissima ballata di Scaramuzza “Sono fatto così”: il cantautore veneziano era già passato nei nostri radar, e incontrarlo di nuovo per me è stato salvifico, una manciata di settimane fa; Marco ha ridato una sistemata al suo abito migliore, e lo ha indossato con la naturalezza di chi sa che la “nudità” è il miglior vestito che possiamo desiderare.

“Sono fatto così”, le partite dell’Inter e la costante ricerca di risposte adatte alle nostre ambizioni: di questo e di altro abbiamo parlato con Marco, nell’intervista che segue.

Marco, è un piacere poterti ritrovare qui, dopo tanti mesi di assenza: ti abbiamo apprezzato, come ricorderai, con il tuo primo EP “Gli invisibili” e oggi siamo ben felici di poter parlare ancora di te. Per rompere il ghiaccio, come stai? Come stai vivendo questo roboante ritorno sulle scene? Qualcosa sembra essere cambiato, in questo tempo di “silenzio”…

Ciao ragazzi, è un piacere ritrovarvi. Sto abbastanza bene, grazie! Vivo   il periodo della pubblicazione con un po’ di stress perché ci sono sempre mille cose da fare, forse dovrei godermelo maggiormente. Ora che mi ci avete fatto pensare proverò a farlo.

Non vedo l’ora di farvi sentire anche gli altri brani perché penso questo primo disco sia stato costruito relazionando tutte le tracce.

“Gli Invisibili” ci aveva colpito, già allora, per la forte presenza del tuo timbro, che nel tuo nuovo singolo “Sono fatto così” sembra prendersi le luci della ribalta in modo ancora più forte, e melodico, lasciando meno spazio all’approccio “narrato”. Quali sono le “direzioni” che hanno guidato, in questi mesi, la tua rigenerazione artistica? C’è qualche artista/progetto in particolare al quale guardi con interesse?

Si, sentivo che in parte avevo l’esigenza di uscire dalla dimensione teatrale e narrativa e quindi la mia ricerca è stata melodica e sonora in questo disco. Penso che l’aspetto teatrale comunque farà sempre parte della mia musica ma questa volta è stato ridimensionato.

In questo momento il progetto di Apice è quello che più mi comunica nel panorama italiano, lo vedo molto vero e coraggioso. Non vuole piacere a tutti, vuole piacere a sé stesso prima di tutto. Penso poi abbia una grandissima scrittura e un bellissimo timbro.

Stai lavorando sulle tue nuove cose con il supporto di un produttore di tutto rispetto, Novecento (alias di Tobia Dalla Puppa, frontman dei Denoise e già produttore di altri nomi interessanti della scena nazionale): com’è stata fin qui l’esperienza con Tobia, e cosa ti ha colpito del suo approccio in studio?

Con Tobia ci siamo trovati bene da subito, ha capito perfettamente quello che volevo comunicare e la modalità con la quale volevo farlo. Penso che Novecento sia un produttore di enorme talento e questo si sente nella ricerca dei suoni che sono stati utilizzati nei sei brani.

Alcune canzoni sono state spogliate completamente e vestite in maniera totalmente diversa, mi sono affidato completamente a lui e questo, secondo me, ha permesso la valorizzazione del progetto.

“Sono fatto così” sembra respirare un’aria di novità che ben fa sperare per il sound del futuro; non è nemmeno un caso, o almeno a noi non sembra tale, che tu abbia deciso di inaugurare il “nuovo corso” con un brano che sa di “cuore aperto”: cosa dobbiamo aspettarci, dal tuo nuovo lavoro in studio?

Penso che ci sarà molto stupore nell’ascoltare i prossimi brani, alcuni sono molto diversi tra di loro a livello di sound, la narrativa però penso sia stata in grado di legare bene tutte le tracce.

Ci saranno brani molto terreni e altri molto più onirici.

Oggi, la scena nazionale sembra sempre più lontana dal mondo che in qualche modo sembri voler frequentare con la tua musica, un mondo fatto di canzoni dalle giuste parole oltreché dalle melodie interessanti che guarda alla canzone d’autore e ad un certo tipo di “teatro-canzone” (se pensiamo a “Gli Invisibili”); ti senti una “mosca bianca”, nel mercato di oggi, o credi che esista una milizie di cantautori capace di “riabilitare” l’interesse nei confronti del cantautorato? 

Non mi sento una mosca bianca, conosco bravissimi cantautori dei quali penso si sentirà parlare nel prossimo futuro. Sento che nelle persone ci sia il bisogno di tornare anche al testo, al poter interpretare un brano e rivedersi in esso. Non esiste un segreto, l’importante è porsi con verità senza ricercare l’approvazione di tutti. 

Penso la musica sia ciclica e che le persone abbiano il desiderio di tornare al valore.

Salutiamoci, come siamo soliti fare, con una promessa che già sai che non manterrai!

Non guarderò più partite dell’Inter.

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Pop

Tutta la libertà di Marco Scaramuzza

Di Marco Scaramuzza avevamo già avuto modo di parlare qualche tempo fa, quando aveva consegnato all’etere il suo secondo singolo “Rosa” a poche settimane di distanza dall’esordio con “Cuore di plastica”.

Già allora, ci era sembrato di aver davanti un ragazzo speciale, e se vogliamo diverso da quelli che siamo abituati ad incontrare sui rotocalchi dell’indie nazionale; Marco, in effetti, ha qualcosa di estremamente vintage non solo nella musica che propone (che si ancora saldamente ad una certa tradizione autorale che, come tutte le cose belle, è destinata a non passare mai di moda), ma sopratutto nell’approccio al modo di fare musica.

Sì, perché nell’era della perfezione geometrica di sezioni auree testo-musicali ad appannaggio dei dosaggi giusti di esperti ragionieri discografici, nel secolo avaro delle riproposizioni seriali di altrettante riproposizioni seriali, nel marasma di anonimato che ad ogni venerdì di uscite rinnova la sua (poco) eletta schiera di nuovi volontari all’oblio, Marco si erge con la serenità del totem su tutto un panorama di illusi e disillusi della musica e della discografia facendo quello che gli riesce meglio: essere sé stesso, nudo e crudo (a tratti, anche fin troppo crudo!), e facendosi alfiere di un popolo invisibile (ma presente) che lotta silenziosamente per proporre un’alternativa a tutto questo rumore.

“Gli Invisibili” è un disco che fa pensare, e questo è forse il suo più grande merito. Non è un lavoro impeccabile, sia chiaro: certe cose, e Marco forse lo sa, potevano essere curate meglio in fase di produzione, ma è innegabile che il sentimento di forte urgenza e necessità che il lavoro comunica sin da primo ascolto convince l’ascoltatore ad affezionarsi a tanta convincente imperfezione.

Volete una prova? Ascoltatevi “Libero”, e arrivati al ritornello capirete che per Marco di regole non ne esistono. Se poi avete voglia di farvi mandare in tilt il cervello, la parabola de “L’orto” è quella che fa per voi: più vite raccontate ed intrecciate come matrioske nel giro di valzer di un brano denso, ammaliante e avvolgente.

Insomma, non lasciate che Scaramuzza resti invisibile. Per noi, non lo è già da un po’.