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Indie Pop

Tra le strade di “Urbe” in cerca di noi stessi: il primo EP di Yassmine Jabrane

Urbe” come città, dimensione interiore che apre le sue porte alla contemplazione pubblica, con vista sul cuore aperto di una penna sensibile, e capace certamente di spiccare nel “grigio diluvio democratico” del nostro tempo avaro di bellezza: questo è molto di più è il primo disco di Yassmine Jabrane, canta autrice romana che dopo una lunga gavetta tira le somme del suo percorso fin qui racchiudendole in quattro canzoni dal retrogusto esterofilo.

Il disco si presenta fin da subito con una compattezza di sound che rivela 1:00 direzione artistica, volta ad esaltare la timbrica espressiva e evocativa di Yassmine: quattro canzoni che rimbalzano fin da subito da un orecchio all’altro, passando dal cuore e incastrandosi nella testa grazie a strutture pop che tuttavia non al mainstream; il tutto, ben cucito addosso all’artista dal lavoro certosino di Cesare Augusto Giorgini.

Il lavoro si presenta come una riflessione a cuore aperto sulle tematiche emotive ed esistenziali che più stanno a cuore all’autrice, che senza filtri si presenta al pubblico italiano con la precisa volontà di trasformare le debolezze in forza e in nuovi punti di partenza. Così, l’ansia può diventare un’occasione di riflessione sui freni che ci imponiamo, una relazione andata male si rivela spunto di indagine riguardo al bene che davvero riusciamo a volere a noi stessi, la nostra sete di risposte risulta la cartina tornasole della nostra paura del buio: insomma, un disco che si tiene perfettamente in equilibrio fra l’opera d’arte e il manifesto terapeutico di una generazione in cerca di nuovi centri di stabilità permanente.

Yassmine dimostra di essere uno tra i nomi nomi da tenere d’occhio per questo 2024, capace di fondere insieme linguaggi apparentemente distanti ma mai così alchemicamente uniti come in “Urbe”.

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Indie Pop

La “Silhouette” di Buonforte è quella di tutti noi

Buonforte è un artista a tutto tondo, che non conoscevamo e che non abbiamo potuto fare a meno di apprezzare fin dal primo ascolto del suo disco d’esordio “Silhouette”, un lavoro denso e ben fatto, costruito sull’equilibrio efficace che separa (e unisce) pop e canzone d’autore, senza mai concedersi cali di tensione né di eleganza.

Un’opera efficace a fungere, allo stesso tempo, da manifesto generazionale e confessione personale, aprendo uno spiraglio su un’intimità fatta di piccole cose che spalancano allo stesso tempo riflessioni sui dubbi esistenziali che ognuno di noi si pone tutti i gironi: dall’amore, al senso delle cose passando attraverso la ricerca di sé stessi. E in effetti, è proprio questo che “Silhouette”, come il titolo stesso dell’album sembra volerci dire, vuole provare a fare: ridisegnare cioè i contorni di una sensibilità profonda, e allo stesso tempo desiderosa di superficie e leggerezza.

Le canzoni del disco si rincorrono incalzando l’ascoltatore in un viaggio che passa attraverso i dubbi e le certezze di Buonforte, ammantate di una musicalità che riesce a conciliare perfettamente il desiderio di ricerca poetica dell’artista con una propensione più che evidente alla melodia e al lirismo: la profondità autorale non cede il passo ad una “popizzazione” scriteriata, piuttosto è la chiave leggera scelta da Altrove (produttore di punta della scena indipendente nazionale, che ha lavorato negli anni con artisti del calibro di cmqmartina, svegliaginevra e altri) ad enfatizzare e a rendere “di tutti” il senso di un lavoro che rischiava di incagliarsi nella sua poeticità.

Silhouette”, invece, arriva al grande pubblico con immediatezza e concretezza, come solo quelli bravi davvero sanno fare: dentro, c’è la vita di Gabriele, che forse (anzi, certamente) può assomigliare alla vita di tanti, se non di tutti.

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Indie Pop

La nuova canzone d’autore ha residenza in “Via Giardini” e vive con Chiara Effe

C’è una forma, una modalità di fare le cose che continua a conquistare chi sa ancora ascoltare con il cuore, prima ancora che con le nostre orecchie sempre più intasate da fin troppo bitume, in questa contemporaneità che fa assomigliare la scena nazionale sempre più ad una discarica di plastica e catrame discografico.

Sì, perché nonostante la narrazione collettiva di questo mercato malato di superficialità cerchi di raccontare ogni giorno l’inadeguatezza della canzone d’autore di fronte all’endemica e drogata incapacità d’ascolto del pubblico nazionale (come se, poi, la responsabilità fosse solo del pubblico, e non anche di chi spesso fa proprio questi proclami esaltati travestiti da malinconici epitaffi), la verità è che esiste una risacca resistente che non smette di cercare musica che sappia “dire” e non solo “chiacchierare”, capace di rendere più che sensata la ricerca poetica del cantautore – direi quasi salvifica, necessaria. 

E’ il caso, questo, del secondo disco di Chiara Effe, cantautrice cagliaritana con la testa tra le nuvole (nel miglior significato dell’immagine: da lassù si vede tutto in modo assai più distinto…) e il cuore ben piantato nella sua terra fatta di sacrificio e amore, dura come il sasso e indomabile come il mare; e forse sono queste le parole più adatte per raccontare un album che raccoglie 12 piccole perle che stanno sul palmo di una mano, ma finiscono col prendersi presto tutto il braccio e anche oltre, come un prurito che finisce con l’arrivare al centro del petto senza dimenticarsi di stomaco e cervello. 

Un ritorno che mette a tacere il brontolio di uno stomaco a digiuno dal 2014, anno del debutto di Chiara con “Via Aquilone”, a mappare l’inizio di un viaggio che ora si sposta poco più in là, in “Via Giardini”: la città emotiva è la stessa ma le canzoni sembrano cresciute dentro un ventre più maturo, capace di aspettare il momento giusto per dare alla luce un “figlio” tenace e purissimo come il diamante. 

C’è l’eco della musica d’autore che vale, nelle dodici canzoni di Chiara, che dopotutto è stata premiata negli ultimi anni con diversi premi intitolati ai grandi cantautori della storia musicale nazionale, quasi ad ufficializzare una staffetta che l’artista ha raccolto nel tempo condensandola nella risposta di “Via Giardini”, album sospeso tra leggerezza (che non è superficialità, come direbbe un grande scrittore) e ricerca di una profondità che in alcuni brani diventa abissale, con tinte talvolta più ironiche (“Non son buono” o “Il colore della mia città”) e altre volte più compassate e nostalgiche (“La ballata del mare” o “Via Serpentara”); c’è un manifesto poetico meraviglioso come “La danza delle parole”, e in generale l’amore trasuda da ogni traccia: un amore per le cose, per le persone, per la vita come meravigliosa occasione non da perdere, in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più fosche. 

C’è una sensazione che non si stacca dalla pelle, dopo aver fatto un giro in “Via Giardini”: esiste un posto bellissimo, in Italia, dove la musica che merita resiste ed esiste ancora. Ed è qui, in questa alcova nascosta, che sembra avere residenza Chiara Effe.

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Indie Pop

Alla scoperta degli Aftersat, lontani da terre che uccidono

Aftersat è un nome che non conoscevamo fino a qualche giorno fa, quando in redazione è atterrata (sì, perché sin da primo ascolto ci è sembrata che fosse “celeste” e allo stesso tempo fortemente “tellurica” la derivazione di “Terra c’accide”) la proposta d’ascolto del loro nuovo singolo, vero e proprio crocevia di esperienze musicali e linguaggi espressivi che trovano nella lingua napoletana il trampolino di slancio di un progetto da scoprire, e da tutelare dalle pretese “alienanti” di un mercato che sembra interessato a nascondere sempre più le radici. 

Radici che, in “Terra c’accide”, si fanno sentire eccome, facendo tremare le gambe a chi sembra non aver capito che non esiste nulla di tanto “futuristico”, oggi, come il recupero critico della tradizione, la riscoperta appunto di quelle radici che ci legano in modo indissolubile a qualcosa che ci anticipa, che viene prima di noi: gli Aftersat paiono aver raccolto la lezione della contemporaneità ed essere partiti alla ricerca di qualcosa di più ancestrale, di più originario, pur senza dimenticare di volgere un occhio al futuro, alla ricerca di nuovi linguaggi. 

“Terra c’accide” è un lamento che si fa atto di sfida a sé stessi, un pianto che non ammette disperazione ma cerca le lacrime giuste per far crescere nuova vita su questa “terra che uccide”: c’è tutto il dolore di una vita costretta alla sopravvivenza, e allo stesso tempo il fascino orgoglioso di una resistenza che diventa condizione esistenziale, quasi culturale; il dramma di un addio che vorrebbe essere un arrivederci, ma che si costringe all’abbandono per non rimanere invischiato nelle sabbie mobili di un perpetuo presente che non conosce futuro. 

C’è la questione meridionale, a suo modo, c’è la ricerca di uno stile ibrido che possa valicare i confini territoriali cavalcando un dialetto che la storia ha già conosciuto come “internazionalizzabile”: una furia genuina che sposa la tarantella con i distorsori, in un brodo primordiale in cui presente, passato e futuro sembrano convivere nella ricerca di una nuova definizione di sé, di un nuovo modo di “chiamarsi per nome”. Una scoperta che finisce con il far bene al cuore, e allo stesso tempo con l’offrire all’ascoltatore un’alternativa salvifica al terrore del release friday.

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Indie Pop

Il coraggio del pettirosso: Federico Cacciatori e la sua visione del mondo

Scelta certamente coraggiosa quella di Federico Cacciatori, che decide di affidare il suo nuovo disco ad una piattaforma certamente inaspettata rispetto a quelle più convenzionali: “La mia visione del mondo” ha visto la luce venerdì scorso, ma solo su OnlyFans (lo puoi ascoltare qui), sito conosciuto per i suoi contenuti generalisti e vicini ad ambienti ben diversi da quello musicale. 

Eppure, Federico ha deciso di dedicarsi a nuove strade, partendo in realtà da una piattaforma che sembra essere fatta apposta per “fidelizzare” il pubblico, restituendo valore alla proposta e allo stesso tempo preservandone la qualità; sì, perché il coraggio di Cacciatori ha potuto certamente avvalersi anche della consapevolezza che oggi più che mai sia necessario, come leggiamo nelle sue note, “andare a cercare la musica che non ci aspettiamo proprio laddove non ci aspettiamo di trovarla”, magari forzando qualche dinamica che oggi sembra irrinunciabile per ogni emergente – come, ad esempio, affidarsi ai rituali sistemi di distribuzione. 

Un elemento di rottura, questo, che va non solo nella direzione della “restituzione di dignità” ad un prodotto musicale che merita di essere “valorizzato”, dando al lavoro dell’artista un valore economico stabilito dall’artista stesso; ma anche una scelta che permette alla qualità della musica di rimanere “intatta”, sfuggendo alle dinamiche di compressione che Spotify e altre piattaforme impongono agli artisti.

Il disco, poi, presenta peculiarità musicali che rappresentano, allo stesso tempo, una continuità e un distacco rispetto al passato discografico di Federico: il compositore, infatti, ha esplorato anche i terreni del “pop” non solo in modo strumentale, bensì come autore di brani contenuti all’interno del disco e cantati da musicisti scelti da Cacciatori; “La mia visone del mondo”, in tal senso, sembra muoversi sulla via dell’espressione di un certo tipo di valori e “punti fermi” che Federico aveva già messo in luce con l’omonimo singolo.

Un lavoro compatto che colpisce certamente per originalità, e questa volta non solo “musicale” ma anche, se così possiamo dire, “discografica”.

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Rap

Dinamite e tritolo nelle penne degli Smokin’ Velvet

Wo, mamma mia, ma che diamine di garra sale appena premi “play” sul secondo singolo degli Smokin ‘ Velvet, duo ibrido che rotola a passo di groove sulla strada che collega Toscana e Lombardia? Inutile fermarsi a prendere fiato, quando il brano che hai davanti sembra fatto apposto per levarti l’aria – sopratutto se sei tra gli “Scarseez” che i due prendono di mira con la precisione del cecchino. 

C’è proprio una tendenza, nella scrittura degli Smokin‘, a trasformare le parole in esplosioni dinamitarde, in piccole granate artigianali che i due lanciano dalla finestra su strade piene di zombie in giacca e cravatta, o in Vans e pullover, o insomma su “deficienti” deambulanti che popolano la noia degli uffici, delle discoteche, del mercato discografico, dei salotti più o meno bene: una rabbia irrefrenabile che sale dallo stomaco e, una volta che arriva al cervello, prende la forma di una smitragliata di lemmi e vocaboli utili a sottolineare, per l’ennesima volta, la validità del concetto che “la lingua taglia più che la spada”, senza ombra di dubbio.

Gli Smokin’ avevano già dato segno di una certa predisposizione alla dinamite: i due avevano esordito qualche mese, con un progetto interamente curato da loro in prima persona (dalle basi alla realizzazione delle grafiche, in quella modalità completamente “indipendente” tipica dell’hip hop) che in effetti aveva lasciato intendere gli intenti bellicosi; ma in “Scarseez”, beh, la rabbia diventa quasi catartica, sublimata da un approccio ironico che permette alla risata di seppellire tutto ciò che ci fa star male. 

Non c’è censura, non c’è limitazione e allo stesso tempo non c’è eccesso: ciò che in effetti non smette di colpirmi, arrivato al ventesimo ascolto del brano, è proprio l’eleganza e il gusto con il quale Emanuele e Alessio affossano le portaerei avversarie, in una guerra combattuta senza esclusione di colpi ma con la leggerezza della battaglia navale da tavolo; un gioco da ragazzi, insomma, per chi certe ferite se le porta dentro e pare averle rese crepe efficaci a far passare la luce. 

Sempre più curioso di seguire e scoprire ciò che sarà.

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Elettronica Indie Pop

“Chi ti crederà più” è il nuovo singolo di Kashmere

“Chi ti crederà più? Ma chi ti crederà più?” così canta Kashmere nel suo nuovo singolo, fuori il 24 giugno e prodotto da Thufo.

Sulle note di un ritmo dance anni Ottanta, ecco che Kashmere è pronto a farci godere lo show, magari, riprendendo le parole del testo, anche insieme a dei pop corn.

Sì, perché Kashmere ci racconta attraverso la sua verità di una storia andata male. “Ti ho tenuta vicino, raccontato chi sono ma sei stata veleno. Ora cosa mi resta, solo caos nella testa. Provo a non pensarci più”. Questo il monito che Kashmere ci comunica, cioè la necessità di non pensare più a come è andata ma iniziare quindi a vivere e a voltare pagina. Tutto questo l’artista riesce a renderlo attraverso una musicalità danzereccia, che ti stimola a ballare e perdersi tra le note della canzone anziché soffermarsi a pensare al futuro di quello che verrà.

“Chi ti crederà più” ammicca al singolo estivo senza pretendere di essere un tormentone. Con la speranza di farci scrollare di dosso tutta la calura estiva, non possiamo far altro che acclamare a gran voce che il nuovo singolo di Kashmere ha sicuramente colpito nel segno.

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Indie Pop

Aliperti, l’amore per il “Vintage” e per le cose fatte bene

Non sono solito, come saprà bene chi legge questa rivista, sbilanciarmi troppo nei confronti degli artisti emergenti che incontro lungo la mia via di implacabile censore: aspetto, solitamente, la carne al fuoco che solo un disco di debutto può dare, nell’era in cui tutto e tutti sembrano essersi affidati alla volatilità del singolo; con Aliperti, però, mi sento di fare una delle mie rarissime eccezioni, e a ragion veduta.

Sì, perché il giovanissimo talento (classe 2000, il tempo passa per tutti ma lui è ancora giovane, eccome…) di scuola Formica Dischi (realtà toscana da approfondire: nomi interessanti in roster) è in realtà ad un passo dalla pubblicazione di un disco d’esordio che, ne sono certo, farà parlare di lui; da dove mi deriva tutta questa sicurezza? Beh, basta che diate un ascolto alla già densa discografia del ragazzo: una manciata di brani che rivelano il gusto per un certo tipo di ricerca, di scrittura, di sonorità che fa scorgere un cuore antico tra le pieghe moderne, modernissime del progetto Aliperti.

Non a caso, il titolo del suo nuovo singolo (l’ultimo prima della pubblicazione del disco) non poteva che essere “Vintage”, perché in Aliperti tutto diventa patinato di un velo di nostalgia che fa guardare al passato, impreziosendolo: il brano parte con sonorità compassate, lasciando crescere poco a poco il groove attraverso una sapiente scrittura ritmica del testo, che rotola felicemente verso l’akmé di un ritornello che si fa “mantra”; se il mood del brano ammicca agli Ottanta per scelta di suoni e arrangiamento, nell’anima di Aliperti si scorge una deriva Settanta che fa godere i più “attempati” come me e potrebbe ricordare, ai più giovani, la musica di Giorgio Poi, altro campione della nuova leva cantautorale.

Il brano, poi, sa raccontare un’intimità fatta di ricordi e insicurezze che si mescolano nel sapore dolce della rimembranza, perché una foto venuta male è comunque una traccia indelebile (spesso, l’unica che abbiamo) del nostro passaggio, o del passaggio di person che amiamo e che, talvolta, dobbiamo accettare di perdere: la centralità della fotografia, ribadita anche in questo nuovo brano, si era già fatta avvertire nei singoli precedenti, come “Isola”, dimostrando una certa abitudine in Aliperti alla contaminazione fra linguaggi, all’incontro fra mondi artistici diversi.

Insomma, i presupposti ci sono tutti per continuare a credere che esista musica per la quale valga il tempo di scrivere una recensione, e la pena di leggerla. Ci aggiorniamo presto, perché quel tanto agognato disco d’esordio è oramai alle porte..

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Pop Rap

Casto ci ricorda che è tutto “Okay”

Atmosfere elettroniche, beat che sembra provenire da una galassia lontana, stiamo parlando del nuovo singolo di Casto che grida al mondo che è tutto “Okay”. Cantato in collaborazione con rckt e Illvminate, il nuovo singolo pubblicato il 24 ottobre per Awary Records e The Orchards è stata lanciata in orbita e sta girando già all’impazzata.

Lo abbiamo conosciuto con il suo singolo d’esordio “Weekend”, in cui Casto ci raccontava cosa voleva dire per lui sentirsi come se fosse sempre un fine settimana e ora possiamo continuare ad ascoltare una sua nuova produzione che dimostra quanto l’artista abbia voglia di sperimentare, mescolare insieme generi e sonorità elettroniche, e perché no, anche voci e stili di altri artisti. La tripletta Casto, rckt e Illvminate ha saputo dare i suoi frutti: “Okay” è uno di quei brani che oltre a trasmetterti le good vibes, ti fa anche ballare e lasciarti andare.

“è tutto okay” continuiamo a ripeterci nella mente e con questo pensiero nel cuore ci fortifichiamo ogni giorno, spronandoci a fare sempre di meglio. Forse è proprio questo il messaggio che Casto vuole dare ai suoi ascoltatori, e forse è proprio questo il motto che lo accompagna nella vita. Noi vogliamo sperare che sia così.

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Pop

Tutta la libertà di Marco Scaramuzza

Di Marco Scaramuzza avevamo già avuto modo di parlare qualche tempo fa, quando aveva consegnato all’etere il suo secondo singolo “Rosa” a poche settimane di distanza dall’esordio con “Cuore di plastica”.

Già allora, ci era sembrato di aver davanti un ragazzo speciale, e se vogliamo diverso da quelli che siamo abituati ad incontrare sui rotocalchi dell’indie nazionale; Marco, in effetti, ha qualcosa di estremamente vintage non solo nella musica che propone (che si ancora saldamente ad una certa tradizione autorale che, come tutte le cose belle, è destinata a non passare mai di moda), ma sopratutto nell’approccio al modo di fare musica.

Sì, perché nell’era della perfezione geometrica di sezioni auree testo-musicali ad appannaggio dei dosaggi giusti di esperti ragionieri discografici, nel secolo avaro delle riproposizioni seriali di altrettante riproposizioni seriali, nel marasma di anonimato che ad ogni venerdì di uscite rinnova la sua (poco) eletta schiera di nuovi volontari all’oblio, Marco si erge con la serenità del totem su tutto un panorama di illusi e disillusi della musica e della discografia facendo quello che gli riesce meglio: essere sé stesso, nudo e crudo (a tratti, anche fin troppo crudo!), e facendosi alfiere di un popolo invisibile (ma presente) che lotta silenziosamente per proporre un’alternativa a tutto questo rumore.

“Gli Invisibili” è un disco che fa pensare, e questo è forse il suo più grande merito. Non è un lavoro impeccabile, sia chiaro: certe cose, e Marco forse lo sa, potevano essere curate meglio in fase di produzione, ma è innegabile che il sentimento di forte urgenza e necessità che il lavoro comunica sin da primo ascolto convince l’ascoltatore ad affezionarsi a tanta convincente imperfezione.

Volete una prova? Ascoltatevi “Libero”, e arrivati al ritornello capirete che per Marco di regole non ne esistono. Se poi avete voglia di farvi mandare in tilt il cervello, la parabola de “L’orto” è quella che fa per voi: più vite raccontate ed intrecciate come matrioske nel giro di valzer di un brano denso, ammaliante e avvolgente.

Insomma, non lasciate che Scaramuzza resti invisibile. Per noi, non lo è già da un po’.