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rock

Dena Barrett, l’elemento anarchico della scena nazionale

I Dena Barrett sono uno di quei progetti che sembrano avere alle spalle un percorso di maturazione lungo, fatto di diverse tappe discografiche capaci di dare consistenza ad un brano come “Halloween”, che tutto sembra tranne che un esordio. Sì, perché il gruppo di Viareggio debutta solo oggi sulla scena, ma la maturità del primo passo sembra celare una consapevolezza che viene da lontano: un sound compatto e determinato che gode della mano saggia di Andrea Pachetti (Emma Nolde, Zen Circus…).

Il brano parte con un groove che riesce a creare in modo efficace un crescendo che esplode pian piano, incastrando l’ascoltatore in una climax ben riuscita; l’ansia “positiva” della canzone regala sin dal primo play la sensazione di trovarci di fronte all’immagine sonora riuscita del significato che “Halloween” prova a trasmettere, raccontando il disagio di una generazione in cerca di un nuovo baricentro che possa finalmente regalare, alla pace stagnante del nostro presente, un “elemento anarchico” capace di risvegliare dal torpore le nostre coscienze. 

Il melpot del brano è un mix riuscito di cantautorato e post-rock, epigono rinnovato di un linguaggio che negli anni Novanta ha saputo sfornare grandi capolavori di band come Verdena, Afterhours, Marlene Kuntz e altri, sempre sospesi tra piglio esplosivo e volontà di riflessione poetica.

Insomma, un ottimo debutto che conferma la nascita di un progetto da non perdere d’occhio. E le novità, ne siamo certi, non tarderanno ad arrivare. 

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Indie Pop

La nuova canzone d’autore ha residenza in “Via Giardini” e vive con Chiara Effe

C’è una forma, una modalità di fare le cose che continua a conquistare chi sa ancora ascoltare con il cuore, prima ancora che con le nostre orecchie sempre più intasate da fin troppo bitume, in questa contemporaneità che fa assomigliare la scena nazionale sempre più ad una discarica di plastica e catrame discografico.

Sì, perché nonostante la narrazione collettiva di questo mercato malato di superficialità cerchi di raccontare ogni giorno l’inadeguatezza della canzone d’autore di fronte all’endemica e drogata incapacità d’ascolto del pubblico nazionale (come se, poi, la responsabilità fosse solo del pubblico, e non anche di chi spesso fa proprio questi proclami esaltati travestiti da malinconici epitaffi), la verità è che esiste una risacca resistente che non smette di cercare musica che sappia “dire” e non solo “chiacchierare”, capace di rendere più che sensata la ricerca poetica del cantautore – direi quasi salvifica, necessaria. 

E’ il caso, questo, del secondo disco di Chiara Effe, cantautrice cagliaritana con la testa tra le nuvole (nel miglior significato dell’immagine: da lassù si vede tutto in modo assai più distinto…) e il cuore ben piantato nella sua terra fatta di sacrificio e amore, dura come il sasso e indomabile come il mare; e forse sono queste le parole più adatte per raccontare un album che raccoglie 12 piccole perle che stanno sul palmo di una mano, ma finiscono col prendersi presto tutto il braccio e anche oltre, come un prurito che finisce con l’arrivare al centro del petto senza dimenticarsi di stomaco e cervello. 

Un ritorno che mette a tacere il brontolio di uno stomaco a digiuno dal 2014, anno del debutto di Chiara con “Via Aquilone”, a mappare l’inizio di un viaggio che ora si sposta poco più in là, in “Via Giardini”: la città emotiva è la stessa ma le canzoni sembrano cresciute dentro un ventre più maturo, capace di aspettare il momento giusto per dare alla luce un “figlio” tenace e purissimo come il diamante. 

C’è l’eco della musica d’autore che vale, nelle dodici canzoni di Chiara, che dopotutto è stata premiata negli ultimi anni con diversi premi intitolati ai grandi cantautori della storia musicale nazionale, quasi ad ufficializzare una staffetta che l’artista ha raccolto nel tempo condensandola nella risposta di “Via Giardini”, album sospeso tra leggerezza (che non è superficialità, come direbbe un grande scrittore) e ricerca di una profondità che in alcuni brani diventa abissale, con tinte talvolta più ironiche (“Non son buono” o “Il colore della mia città”) e altre volte più compassate e nostalgiche (“La ballata del mare” o “Via Serpentara”); c’è un manifesto poetico meraviglioso come “La danza delle parole”, e in generale l’amore trasuda da ogni traccia: un amore per le cose, per le persone, per la vita come meravigliosa occasione non da perdere, in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più fosche. 

C’è una sensazione che non si stacca dalla pelle, dopo aver fatto un giro in “Via Giardini”: esiste un posto bellissimo, in Italia, dove la musica che merita resiste ed esiste ancora. Ed è qui, in questa alcova nascosta, che sembra avere residenza Chiara Effe.

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Indie Intervista Pop

I M.A.T. più che un trio sono la strada che porta a casa

Ci sono progetti che nascono per caso, e poi si ritrovano a crescere senza nemmeno rendersene conto: idee che salgono su dalla terra umida della periferia per distendere i rami fino al cielo, e se possibile anche più in là; ci sono canzoni che s’incollano al cuore dopo il primo ascolto, lasciando in bocca il retrogusto amarostico della dipendenza quando il brano finisce e tu sei costretto a premere play ancora una volta: è il caso, questo, di “Miele”, il primo EP dei M.A.T., trio eclettico bolognese (ma con radici sparse un po’ ovunque) che ha deciso di battezzare il proprio esordio in piena estate, quando la musica va in vacanza ma i cuori continuano ad essere bisognosi di nuove melodie da cantare.

MAT, piacere di conoscervi! Non abbiamo mai avuto l’occasione di intervistarvi sulle nostre piattaforme, quindi vi chiediamo di presentarvi ai nostri lettori! Chi sono i MAT, cosa suonano e da dove vengono?

I MAT nascono a Bologna circa due anni fa dall’incontro musicale tra Thony, desideroso di produrre alcuni testi che aveva messo da parte negli anni ed Axel, che cominciava pian piano a muovere i suoi passi nella scena musicale bolognese dopo essersi trasferito in città da Napoli. Dopo alcuni esperimenti (non troppo azzeccati in realtà) il trio viene completato da Marco, il quale propose ai due proprio un prototipo di testo che diventerà 6/06, il nostro primo singolo. Ci piace immaginarci come un collettivo di idee più che una band in senso stretto, dove ognuno porta le sue influenze e si cerca di tradurle in musica. 

Come nasce il progetto? Sembrate essere amici molto affiatati, oltre che “compagni di musica”!

La storia in realtà parte in un contesto relativamente lontano dalla musica: il calcio.

Infatti noi tre siamo stati per diverso tempo compagni di squadra in un team di calcio a 7 bolognese, ed è lì che è cresciuta poi la nostra amicizia profonda prima ancora che stima reciproca dal punto di vista musicale. 

Un fatto interessante risale proprio al primo anno in cui ci siamo conosciuti: Axel, trasferitosi da poco in città, conosceva ben poco della vita notturna di Bologna e caso volle che su suggerimento di Marco si dovesse andare ad una serata al Locomotiv (locale monumento della musica a Bologna) ed indovinate con chi? Thony, che entrambi conoscevano pochissimo, e dove? Al this is INDIE. Se non era scritto…

Una breve serie di singoli prima della pubblicazione di “Miele”, un EP che mescola carnalità e poesia con il giusto dosaggio degli elementi. Perché avete scelto proprio “Miele” come titolo del disco?

Miele è un titolo figlio di un brano che si trova all’interno dell’EP che ci sembrava il riassunto perfetto di come vogliamo che la nostra musica vi faccia sentire (che è esattamente come ci sentiamo noi, in primis). Miele rappresenta qualcosa di dolce a primo impatto ma allo stesso tempo viscoso, come a volte i rapporti possono essere, in cui è facile perdersi.

Il miele è dolce, ma costa dolore ottenerlo.

Nel vostro disco, emergono influenze varie che sembrano voler sposare insieme la ricerca aurorale da una parte e sonorità grunge e garage dall’altra: come avete lavorato al disco, e quali sono stati i riferimenti principali della vostra ricerca?

Il sound del disco è il risultato dello sforzo collettivo di tradurre in un unico prodotto quelle che sono influenze molto diverse tra loro (basti pensare che Marco vive di rap, Thony ascolta cassa diritta anche alle 7 del mattino sorseggiando un cappuccino ed Axel se ne sta a piangere giorni interi con Lana del Rey in sottofondo). Un catalizzatore fondamentale l’abbiamo ritrovato in Altrove, al secolo Marco Barbieri, che ha capito ed aiutato musicalmente a capitalizzare delle idee in una visione comune e concreta. Insomma il collante perfetto, e lo ringraziamo per questo. I riferimenti principali provengono da colui che scrive le parti musicali dei brani, Axel, e si ritrovano in band come The Cure, The libertines, la stessa Lana Del Rey e Kevin Parker dei Tame Impala oltre che The Neighbourhood, band comune a tutti e tre. 

Parlateci un po’ delle canzoni: esiste, a vostro parere, un filo rosso che collega tra loro le varie produzioni?

Il filo rosso speriamo sia evidente all’ascolto, poiché tutti i brani sono strettamente legati alle nostre vite ed esperienze dell’ultimo anno e mezzo. Esperienze che spesso ci siamo trovati a vivere insieme, uniti da un rapporto intimo e profondo d’amicizia. Tutti i brani portano con loro immagini chiare di avvenimenti veri, quasi assolutamente non romanzati e speriamo di riuscire a comunicarli tutti con onestà. 

Non poteva che essere, quindi, un diario a cuore aperto di vita vera, comune. 

E invece, un brano al quale vi sentite più legati rispetto agli altri?

Risponderemo con tre brani per tre persone. Axel sicuramente è più legato a BDSM, Thony a Fra le tue gambe e Marco a Miele. 

Avete in previsione qualcosa per quest’estate? Presenterete il disco in live?

Magari! Per ora non abbiamo in programma nessun live, ma quando lo faremo, sarà rumoroso ed una grande festa itinerante.

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rock

In viaggio con i Tokyo Suicide

Tokyo Suicide, un nome che vale certo la pena di scoprire: sound deciso per un progetto che raccoglie eredità antiche, che sembrano aver attraversato lo spazio-tempo per depositarsi sulle piattaforme digitali arricchite di nuove energie, e di nuovo sudore.

Non sono certo degli esordienti, i Tokyo Suicide, a dispetto dell’esigua discografia per ora pubblicata: un disco d’esordio nel 2020, in piena pandemia, seguito da uno stop di tre anni che volge proprio quest’estate all’agognato termine, con la pubblicazione di “Here and Now”, il nuovo singolo della band che vede tra l’altro la collaborazione con Derek Sherinian (tra gli altri, Dream Theater).

Insomma, è evidente che gli ingredienti giusti c’erano tutti sin da principio per convincerci a fare qualche domanda al gruppo, e quindi, eccoci qui!

Un disco nel 2020, appena pochi mesi dopo lo scoppio del dramma pandemico; poi uno stop di tre anni: cos’è successo ai Tokyo Suicide in questo lasso di tempo?

Il progetto Tokyo Suicide è nato nel 2019 come side-project sperimentale: siamo entrati in studio quando la formazione era ancora di soli due componenti (Sean e Agostino) e abbiamo iniziato a comporre senza alcuno schema predeterminato o aspettativa. “Selfie to die for” è nato  velocemente e in maniera così spontanea, sebbene ostacolato dai vari lockdown, che ci ha lanciati verso un secondo progetto nel quale il buio delle strade ed i neon si sono trasformati in atmosfere potenti e luminose. Questo ci ha portato ad accogliere numerose collaborazioni, alcune delle quali sono entrate a far parte ufficialmente nel gruppo.

Di certo, le novità e i cambiamenti di questo triennio sembrano aver inciso sul vostro sound, che pur mantenendo l’identità degli esordi sembra destinato ad evolversi verso sonorità nuove. Come avete vissuto questa pausa, se di pausa possiamo parlare?

Abbiamo passato molto tempo a sperimentare nuove sonorità e sintesi del suono con nuovi strumenti, andando alla ricerca di un’evoluzione dell’identità iniziale. 

Here and Now” sembra richiamare al sound del primo Peter Gabriel, fondendo progressive rock e sonorità più melodiche ben capaci di elevarsi sulla densa trama di sintetizzatori che sorregge il brano. Ci raccontate come nasce la canzone?

Here and now” è una profonda analisi dei sentimenti umani, trasformata in testo,  che è poi sfociata anche in musica, durante una serata che stava quasi per finire. Era mezzanotte, stavamo per andarcene tutti dallo studio di registrazione, quando alcune note di Moog hanno iniziato a risuonare spontanee sulla batteria. A quel punto Nicole e Sean si sono messi a intonare il ritornello che poi ha dato il titolo alla canzone. La batteria fa da colonna portante a un moogbass che scandisce la trama. È stato il primo brano che abbiamo fatto ascoltare a Derek, che è entrato subito in sintonia con la band, fornendo quell’alchimia e quell’atmosfera che ci ha completati.

Non volevamo “spoilerare” subito ai nostri lettori la guest-star che avete coinvolto nella produzione del brano, ma a questo punto direi che ce ne potete parlare… anche perché davvero qui il livello si fa alto!

Eh sì, Derek Sherinian è stato per anni un punto di riferimento che ci ha cresciuto musicalmente attraverso le sue opere. L’idea di aver composto e suonato questo disco insieme a lui è a dir poco straordinaria. All’inizio dovevamo collaborare solo su un paio di tracce, poi lui stesso si è sentito molto coinvolto, chiedendoci di ascoltarne altre. Ovviamente in alcuni brani c’era più spazio per lui, altri invece erano più completi e il suo contributo è stato minore. Ma la sua professionalità e la sua arte hanno reso questo disco veramente speciale per noi.

Dal vivo, il vostro show sembra promettere davvero bene: avete qualche data in previsione per l’estate, a supporto dell’uscita del vostro nuovo singolo?

Stiamo valutando gli ambienti idonei in cui poterci esibire al meglio, anche se la scena live purtroppo non valorizza i gruppi emergenti underground.

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Indie Pop

Annusa “Fiore” di Artegiani e scoprirai il profumo della nuova canzone d’autore

Conoscete ormai di sicuro Giovanni Artegiani, perché nel corso degli ultimi anni abbiamo avuto modo più volte di parlarvene e di raccontarvi la sua musica.

Giovanni, in effetti, ci è sempre piaciuto, a noi redattori implacabili, per la sua capacità di rimanere coerente ad un’idea di scrittura che nel tempo ha saputo esplorare confini diversi, ma sempre mantenendosi fedele ai suoi rigorosi parametri estetici e poetici: un dono, quello di Artegiani, che si coniuga con una predisposizione vocale interessante, grazie a un timbro che arricchisce di spessore parole scelte appositamente per depositarsi sul fondo del cuore.

Canzoni, come direbbe lui, che possano raggiungerci ovunque siamo, alla ricerca di una dimensione di intimità che diventa collettiva fin dal primo play: con uno slancio quasi un po’ blanchito, Giovanni dedica al suo amore distruttivo e allo stesso tempo angelico l’invettiva piena d’amore di “Faccia d’angelo”, che fa il paio con altri due brani, “Tu in riva al mare” e “Quando amore non è”, che provano a raccontare l’amore (in un disco che parla d’amore) in modo un po’ diverso dal solito.

Naturalmente, come per ogni cantuatore che si rispetti anche per Artegiani l’amore viene visto nel modo meno “definibile” possibile, finendo con l’assomigliare, tutto il disco intendo, ad un prisma di rifrazione attraverso il quale Giovanni proietta le sue sicurezze ma soprattutto le sue insicurezze: un tuffo in mare aperto che mozza il respiro e lascia l’ascoltatore ad immergersi verso apnee nuove, che ricordano vecchi dolori con parole diverse, finalmente giuste.

“Guardingo” diventa così un manifesto personale che ben si adatta a tutti coloro che hanno capito che abbassare la guardia può essere fatale, ma che nonostante tutto non smettono di amare con dedizione e sacrificio; “Fiore” è la dichiarazione d’amore che non ti aspetti e che giustamente dà il nome all’intero lavoro di Giovanni, spiccando per produzione pop e slancio melodico.

Un lavoro denso, frutto di anni di ricerca e dedizione, che proietta Artegiani verso un live che confidiamo possa restituire tutta la dimensione emotiva di un disco che vale, almeno quanto un “Fiore”.

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Indie Intervista Pop

Se premi play su “Conchiglie” di Beca puoi sentire la voce del mare

Di Beca avevamo avuto modo di parlarvi giusto qualche settimana fa, all’uscita del suo singolo “Aurora”: lo stile genuino e vero dell’artista toscano ci aveva subito conquistato per spontaneità e pathos, regalandoci una buona alternativa ai singoli melensi e tutta plastica del venerdì.

Ovviamente, quando ha visto la luce, qualche settimana fa, il suo disco d’esordio ci siamo presi l’impegno con noi stessi di non perderci l’occasione di potergli fare qualche domanda: abbiamo parlato di “Conchiglie“, il suo disco d’esordio per La Rue Music Records, di amore e del mare di Viareggio; insomma, gli ingredienti sono quelli giusti per una buona chiacchierata.

Ciao Beca, piacere di ritrovarti. Ti abbiamo scoperto qualche settimana fa con “Aurora”, e subito ci aveva convinto il tuo piglio autorale capace allo stesso tempo di ammantarsi di un’ottima spinta melodica e pop. Chi è Beca, per chi ancora non lo conoscesse?

Beca è un ragazzo con una sfrenata passione per la musica, talmente sfrenata che ha avuto la malsana idea di volerla trasformare in un lavoro, e che quindi adesso sta affrontando tutte le difficoltà di un artista emergente. Beca scrive pezzi fortemente autobiografici, segnati indelebilmente da influenze proveniente dalla musica leggera e dal cantautorato italiano.

Come ti avvicini alla musica? Quali sono i primi passi che hai compiuto in questo mondo?

Il mio primo scontro con la musica è avvenuto a undici anni quando ho imbracciato per la prima volta una chitarra. Con questo strumento ho avuto degli alti e bassi durante la mia adolescenza, talvolta l’ho considerata troppo poco. Nonostante tutto però lei è rimasta lì, nel frattempo mi sono appassionato al canto e, infine stanco di relegarmi alle canzoni di altri autori, ho deciso di buttarmi nella scrittura.

Vieni da Viareggio, città musicalmente e culturalmente ricca di progetti interessanti. Come vivi il tuo rapporto con la provincia? Che relazione hai con la scena della tua città, e cosa ne pensi?

Recentemente dalla Versilia sono usciti un sacco di artisti validi soprattutto nel panorama indie. Sono molto fiero del fatto che band e artisti locali, con i quali sono legato soprattutto da un rapporto di amicizia, stiano riuscendo a prendersi delle belle soddisfazioni grazie alla loro musica.

Aurora” aveva già fatto capire al tuo pubblico che il “nuovo” Beca avrebbe dato all’elemento acquatico un valore importante… oggi “Conchiglie” conferma questa sensazione: quanto “mare” c’è, dentro il tuo album di debutto?

Il mare ha un valore centrale non solo nei miei lavori e nel mio lato artistico, ma incide tantissimo anche nella mia quotidianità. Solo la sensazione di sentire la salsedine nell’aria mi trasmette serenità e mi rendo conto di essere a casa.

Raccontaci i brani, passo dopo passo: esiste un filo rosso che li collega e li unisce, a livello concettuale?

C’è un filo conduttore che unisce i pezzi: sono tutti autobiografici, raccontano tutti diverse parti di me – le mie relazioni, le mie sensazioni e i miei percorsi mentali. Nonostante ciò, ho voluto sottolineare fin dalla scelta del titolo dell’album che ascoltarlo è come raccogliere le conchiglie sulla battigia. Certo sono tutte conchiglie, ma ognuna ti colpisce per un particolare (un contesto, una frase) che la rende diversa e speciale di fronte all’ascoltatore.

Hai lavorato con Nicola Baronti: che tipo di collaborazione è stata la vostra? Come vi siete conosciuti e avvicinati?

Ci siamo conosciuti quando venne invitato a fare il giudice al Viareggio Music Festival. Decidemmo di produrre un brano insieme e di lì nacque una collaborazione che dura tutt’oggi: con Nicola mi trovo molto bene e spero di affidare a lui anche i prossimi lavori. È una persona che fa crescere molto, sia a livello artistico che non.

Salutiamoci, ma prima rivelaci cosa farà Beca, ora che i giochi sono fatti!

Ora c’è solo una cosa da fare: suonare il disco live!

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Indie Pop

LiUK ti cerca sempre e alla fine ti trova

Non conoscevamo LiUK prima di questo ritorno dell’artista toscano, che dopo una buona serie di singoli decide di confermare le aspettative con un brano che diventa manifesto personale e inno liberatorio da tutte le energie negative che ci tirano verso il fondo: “Ti cerco sempre” è una promessa che si fa hit nella resa di una canzone utile a ricordarci che certe cose non finiscono mai, anche quando tutto sembrerebbe dire il contrario. 

LiUK non è certo uno sbarbatello, anzi: di strada ne ha già fatta eccome il giovane cantautore, che dopo aver solcato per anni palchi e festival per una gavetta provante quanto temprante, ha deciso qualche tempo fa di intraprendere un percorso solista che nel tempo lo ha visto pubblicare una buona manciata di brani che ancora non sembrano destinati a confluire in un album; “Ti cerco sempre”, in tal senso, sembra essere la definitiva apertura al pop di LiUK, che possiede nel sue corde il lirismo giusto per fare strada nel mercato mainstream nazionale, pur dovendosela vedere con una concorrenza più nutrita e spietata (perché disperata) che mai. 

“Ti cerco sempre” porta con sé la brezza dell’estate senza però dimenticare il gelo di un inverno emotivo che pare aver lasciato tracce nella penna toscana: la musica diventa così uno strumento utile a superare le tormente e le bufere del cuore, e a ricordarsi che “morire per amore” è un supplizio lento ma necessario per trarre nuove consapevolezze su sé stessi e sul proprio mondo interiore. 

Sonorità disco che incontrano un mondo autorale e interiore che merita di essere scoperto: la resa finale di “Ti cerco sempre” aiuta a nutrire le aspettative verso un progetto da tenere d’occhio, perché dotato di un ottimo margine di crescita. 

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Indie Pop

L’alchimia pop di Buonforte per non smettere di sognare

Conoscevate Buonforte?

Beh, noi, a dire la verità, no: ci è capitato fra le mani in un pomeriggio redazionale di fine maggio, e sin dal primo play abbiamo sentito spandersi nell’aria una sensazione particolare, come se l’estate fosse appena esplosa sulla punta delle nostre dita e delle nostre orecchie: colpa di “Sogni da vendere”, il singolo del ritorno di Gabriele che apre la strada ad un disco che sicuramente saprà stupirci.

C’è un’atmosfera particolare, magica, nelle trame musicali di Buonforte: canzone d’autore al servizio di un’idea di pop che possa essere riflessione esistenziale, rifugio sicuro e spazio d’espressione libero e di tutti; un’alchimia riuscita fra estremi diversi, che trovano il proprio equilibrio sul filo di un brano che tende la mano a chiunque ancora non abbia trovato la risposta che cerca a domande che sembrano moltiplicarsi ininterrottamente. Che sia il dubbio, la risposta che stiamo cercando?

Buonforte mette in piedi un brano che non perde la sua matrice acustica, anzi, esalta le scelte di scrittura poetica di una penna fatta per creare spazi e ricucire ferite: un’esplosione di colori aggrappati alla trama di una chitarra acustica, che guida le danze di una ballad dal retrogusto filosofico che racconta i dubbi e le paure di tutti noi, sospesi tra i sogni che vorremmo realizzare e una realtà che il più delle volte ci costringe a non guardare, per non svegliarci dal sonno delle nostre coscienze.

Un lavoro ben fatto, che ci permette di puntare i riflettori su un progetto da tenere d’occhio, e da valorizzare. Ottima scoperta di questo venerdì.

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Indie Intervista Pop

Un sabato sera introspettivo ed emozionante con Da Blonde

Da Blonde, e già il nome ha in sé qualcosa di luminoso, e allo stesso tempo pregno di un certo tipo di mistero – e se vogliamo, di oscurità. Perché non c’è luce senza buio, e solo nella tempesta più estrema è possibile capire l’importanza dei porti sicuri che ci siamo lasciati alle spalle, salutando le nostre certezze per lanciarci alla rincorsa di un orizzonte sempre più distante, man mano che proviamo ad afferrarlo; questo, in fondo, pare essere il significato di un brano come “Sabato sera”, singolo che annuncia il ritorno di una penna fine, educata e decisa ad impugnare la musica come fosse il bisturi necessario ad un’operazione a cuore aperto salva-vita.

https://open.spotify.com/artist/5tBx3NDRSF6BtOwNl1hlcJ?si=8zMUNT7IQO689my8gzDKaA

Un brano ibrido, che ambienta il proprio ostinato riflettere tra le luci strobo del sabato sera, relegando ad un angolo, pensierosa, la sensibilità di Da Blonde, cantautrice napoletana con un disco all’attivo (“Parlo ai cani“, 2020) e una capacità sorprendente di mantenersi in funambolico equilibrio fra canzone d’autore e cavalcata disco-pop – come ha fatto in “Sabato sera”.

Potevamo esimerci dal dedicare qualche domanda a Daniela? Beh, ovviamente no: quando l’odore di buono ci passa sotto il naso, non possiamo far altro che provare a sfamarci di bellezza; che di questi tempi, tocca fin troppo far la fame.

Daniela, bentrovata su Perindiepoi. Abbiamo l’abitudine di fare questo piccolo “giochino” con tutti i nostri ospiti, per inaugurare le nostre conversazioni: se dovessi scegliere tre aggettivi capaci di raccontare chi è Da Blonde, più uno aggiuntivo che proprio non ti appartiene, quali sceglieresti?

Ciao a tutti. Se dovessi descrivermi con tre aggettivi direi riflessiva, attenta e sincera. Una cosa che proprio non mi sento di essere è opportunista.

Il tuo è un progetto particolare, che nel corso degli anni ha saputo evolvere il proprio linguaggio: c’è qualcosa che non è mai cambiato, in mezzo alla tormenta, in tutti questi anni?

Credo la voglia di trasmettere qualcosa sia una costante dall’inizio a oggi, la voglia di comunicare e di toccare in qualche modo chi ti ascolta. Fare musica è una sfida costante prima con me stessa e anche la voglia di fare sempre qualcosa di nuovo non è mai cambiata.

Qualche anno fa, mentre il mondo si fermava, tu pubblicavi il tuo disco d’esordio: che ricordo ti ha lasciato, quel momento?

I giorni in cui è stato pubblicato “Parlo ai cani” mi hanno lasciato, nonostante l’atmosfera surreale, bellissimi ricordi. Ho voluto il disco con tutte le mie forze, ero motivatissima, ho investito personalmente e curato ogni aspetto, credo di non essere mai stata così fiera di me prima di allora.

Poi, un silenzio durato anni, e oggi il ritorno sulle scene con un brano che sembra porsi allo stesso tempo in continuità e in rottura con il passato: per quanto mantieni il piglio pop e melodico degli esordi, è il tuo approccio alla scrittura che pare essersi fatto più “grave”, quasi solenne a momenti. Crescere, forse, vuol dire anche imparare ad incassare i colpi della vita?

Lo spero proprio, sicuramente crescere vuol dire affrontare sempre nuove sfide, alle quali spesso non sei preparato, ti porta a nuove domande, nuove risposte, cambi di prospettiva. Cerco di essere più fedele possibile a quello che sento e credo sia inevitabile che il mio linguaggio cresca insieme a me.

Ogni canzone cela una ferita da rimarginare, o almeno così pare per la musica di Da Blonde: cosa si cela, in questo caso, dietro a “Sabato sera”?

“Sabato sera“ è stato scritto in un periodo che mi ha messa molto alla prova, mia madre ha avuto problemi di salute e mi è sembrata la cosa più grande che abbia mai dovuto affrontare , in certi momenti è stata così dura che mi sembrava che ogni cosa per cui avevo provato entusiasmo prima non avesse più senso. Uscire e divertirsi sembravano appartenere a un’altra vita, il sabato non era diverso da tutti gli altri giorni e raccontare questa voglia di leggerezza in questo pezzo è stato liberatorio ed è stato anche il modo di tornare alla mia vita.

Raccontaci anche del tuo rapporto con Blindur, e di come avete lavorato insieme sul brano: la mano dell’autore napoletano si avverte, ma di certo ad uscirne potenziata non può che essere l’impressione di avere davanti una cantautrice a tutti gli effetti…

E’ stato estremamente interessante e piacevole lavorare con Massimo De Vita e Luca Stefanelli, ci conosciamo da qualche anno, stimo molto entrambi. Lavorare a un brano insieme è  un incontro di mondi diversi ed io sono sempre affascinata da quello che può nascere, credo che abbiano saputo dare vita al suono perfetto per questa canzone, qualcosa che facesse venire voglia di ballare e emozionasse allo stesso tempo.

E ora, cosa vedi davanti a te? Quest’estate potremo ascoltare la tua musica dal vivo? Cosa c’è in programma?

Ci sono un po’ di brani a cui sto lavorando, con diversi produttori, uno soprattutto a cui sono legatissima, ma non vi svelo altro, preferisco sia una sorpresa. 

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Internazionale

Un bagno di stelle (e riflessioni cosmiche) per il nuovo singolo di Millepiani

Alessandro è un cantautore di quelli veri, duri e puri, che sanno come comportarsi di fronte alla dispersione di senso del pop italiano: costruendo, con le parole, nuovi ponti capaci di collegare pensieri e pubblico in un nuovo simposio degno della tradizione della canzone d’autore, mantenendo una propria originalità che non sconfina mai nella ripetizione autoreferenziale. 

Sì, perché se c’è una cosa che possiamo dire di Millepiani, noi che ne seguiamo le mosse ormai da tempo, è che l’artista carrarese non si è mai seduto, non si è mai ripetuto nella ricerca ossessiva di nuove chiavi per aprire porte che sembrano chiuse ermeticamente dall’interno. C’è uno slancio filosofico, in Millepiani, che avvicina Sgalambro e Roversi, filosofia orientale e mistica occidentale, scienza e rappresentazione; una costante e ossessiva ricerca, come dicevamo prima, di svelamento e allo stesso tempo di preservazione del mistero che ammanta il mondo delle cose e delle idee. Insomma, quella di Millepiani è un’opera musicale che sconfina e straborda con l’entusiasmo del bambino – o del poeta. 

Aveva già saputo mostrarci la via maestra del suo operare, il nostro Millepiani, con il suo disco d’esordio, “Eclissi e Albedo”, seguito poi da “Krakatoa”: con “Un bagno di stelle”, l’artista toscano lascia detonare tutta la forza evocativa di una scrittura che non si contiene, anzi, cola giù dal contenitore e sembra non adattarsi ad alcuna forma specifica; la produzione, curata dal team di La Clinica Dischi, mantiene il proprio slancio pop/mainstream creando un ossimoro affascinante. La canzone riesce così a diventare un viaggio che conduce al centro della notte, o meglio, nel cuore pulsante dell’eterna domanda che ogni uomo finisce con il farsi, di fronte al rapimento della vita e della grandezza dell’universo: perché, qui e ora?

C’è una linea che sembra collegare tutte le pubblicazioni di Millepiani, e che qui si trasforma in un filo rosso che lega al cuore la necessità di tenere d’occhio uno dei progetti certamente più complessi e allo stesso tempo fascinosi della scena contemporanea.