A metà strada tra il cantautorato e il pop, troviamo la nuova canzone di Bert, dal titolo “Sembri magica”, che potete ascoltare su tutte le piattaforme dal 22 ottobre. Il cantante romagnolo ha scelto di affidare la sua musica all’etichetta spezzina Revubs Dischi: è da questo momento in poi che tutta la magia di Bert si trasforma in straordinaria realtà.
“Sembri magica” rappresenta per Bert il cambiamento, personale ed emotivo, che si accetta però col sorriso. Non sempre, infatti, siamo abituati a vivere le tramutazioni come delle evoluzioni, spesso perciò tutto questo non può che generare traumi. In “Sembri magica”, infatti, Bert decide di andare a ripescare nel ricordo, nel nascosto, tutto quello che lo aveva fatto soffrire in passato, tramutandolo quindi in musica. Cosa c’è di meglio, no?
Bert sa bene come fare con le parole, ce lo confermano le sue precedenti uscite, otto in totale, che sono state i rami per lui che gli hanno permesso di mettere le ali per poi finalmente spiccare il volo. Con “Sembri magica”, Bert ci incita a non smettere mai di sognare, perché sono proprio quelli a dare forma alla nostra vita; un augurio dunque che anche noi, dopo aver ascoltato il suo ultimo singolo, non possiamo che ripetere anche all’artista, magari chi sa, in visione di un album!
Gli Arancioni Meccanici ci hanno fatto un regalo prima di andare in vacanza. Un nuovo singolo, “Combustibile”, un nuovo video e una porticina aperta sul futuro che fa intravedere l’uscita di un nuovo album. Tornati dalle ferie abbiamo deciso di incontrarli per fare con loro il punto della situazione. Ecco a voi che cosa ci hanno raccontato.
Ciao Arancioni Meccanici, partiamo dalla vostra ultima uscita. Qual è il vostro combustibile?
Il combustibile che abbiamo immaginato per l’omonimo singolo è sicuramente una qualsiasi materia capace di sprigionare grandi energie, senza che ci si preoccupi troppo delle eventuali conseguenze. Per quanto riguarda noi, il combustibile più efficace sono le serate che iniziano all’aperitivo.
Nel singolo precedente, “Italo Disco”, a un certo punto compaiono diversi frammenti audio, pezzetti di frasi, telecronache, interviste, che ci riportano tridimensionalmente agli anni Ottanta e Novanta già evocati più in generale dalle atmosfere del brano. Ce li raccontate?
L’idea è venuta abbastanza naturalmente durante la scrittura del pezzo. Quella parte centrale, ipnotica e narcotizzata, serve a evocare alcune memorie del passato e a proiettarle nel futuro. Inoltre rappresentano anche un piccolo tributo a quella che per tanti versi è un’età aurea e decadente al tempo stesso, di cui siamo indubbiamente estimatori e nella quale artisticamente ci ritroviamo. Ci siamo divertiti a individuare, ripescare (e a ridare voce in quei frammenti audio) alcuni personaggi pubblici e iconici del periodo.
Per “Italo Disco” e “Disco d’argento” sono usciti due interessantissimi rework. Ne è previsto uno anche per “Combustibile”?
Ne abbiamo parlato e ci piacerebbe molto, così come per le tracce precedenti. L’idea di avere un remix per ogni traccia ci intriga. Anzi, se qualcuno leggendo volesse proporsi, noi siamo apertissimi.
Il vostro progetto è nato nel 2005. Al di là dell’evidente ruolo dei social e di Internet in generale, quali sono le differenze che avete riscontrato tra la scena musicale indipendente di oggi e quella dei primi anni Duemila?
La prima fondamentale differenza è che allora era una cosa normale comprare un disco, il che rappresentava una fonte di guadagno molto importante, che permetteva anche a una piccola realtà di stare in piedi economicamente. Oggi fare musica, fuori da un business plan ben definito, assomiglia molto a fare del volontariato per quel poco pubblico a cui può ancora interessare qualcosa d’imprevisto e non allineato.
Se aveste una macchina del tempo, dove andreste?
Per quanto scontata possa essere la risposta, probabilmente a Hill Valley nel 1955 (Ritorno Al Futuro ndr). Oppure anche a una puntata di Festivalbar, tipo nel 1984, suonando come concorrenti in gara.
C’è uno strumento musicale che non avete mai usato e che vi piacerebbe utilizzare per qualche vostra produzione futura?
In realtà non riusciamo a pensare a nulla in particolare. Nelle ultime tracce specialmente, non abbiamo lesinato incursioni in altri territori utilizzando più strumenti. Forse, come da poco fatto in “Combustibile”, introdurre ancora delle voci femminili potrebbe essere una buona idea.
Salutate i lettori di Perindiepoi consigliando cinque dischi per i loro viaggi.
“Affondo” è il titolo del nuovo album di Rugo, che torna sulle scene a cinque anni dal precedente “Panta Rei”. Questo nuovo disco può essere visto, per certi versi, come una sorta di concept album intorno al concetto di “abbandono”, da intendersi in tutte le sue accezioni possibili. Non è infatti solo un abbandono “sentimentale” quello di cui Rugo parla in questi nove brani, ma più in generale di un abbandono “esistenziale”.
Desiderosi di saperne di più l’abbiamo incontrato per fargli qualche domanda.
Ciao Rugo, “Affondo” è un titolo che si presta a una doppia interpretazione. Da un lato l’idea dell’affondare fa pensare a una situazione che si subisce senza riuscire a reagire, dall’altro viene invece spontaneo cogliere il riferimento all’attacco dello schermitore che con l’affondo mette l’avversario spalle al muro. In quale delle due definizioni riconosci maggiormente te e il tuo album?
Mi piace spesso utilizzare parole o frasi che presentano una doppia interpretazione ma penso che per farlo debba comunque esserci un motivo, queste parole vanno usate con cognizione di causa. Per questo, all’interno dell’album, il doppio significato del titolo si riflette nella doppia valenza che assume il tema principale, l’abbandono, quindi l’abbandonare e l’essere abbandonati. Io a fasi alterne mi riconosco in entrambe le definizioni, forse una condizione comune a tutti. Non si può vincere sempre, ma di questo ne parlerò forse più avanti.
Che cos’è la “Muzic Italien” che hai nominato in diverse occasioni?
La Muzic Italien è nata come risposta ad una volontà altrui di catalogare sempre tutto. Una parola – il cui suono riporta alla lingua tedesca – si unisce ad un’altra che “suona” francese, per poi poter essere tradotte in “Musica Italiana”. Muzic Italien è una risposta alla domanda: “Ma tu dove ti inserisci a livello musicale?” che viene spesso fatta da tutte quelle persone a cui non interessa inquadrare il genere, ma il raggiungimento di un risultato. Diventa quindi sì una classificazione per sfuggire alla classificazione, ma lo fa in un modo non definito da un genere musicale. Questo è quello che possiamo dire della Muzic Italien e se la risposta non è stata esauriente, bene così. W la Muzic Italien.
I due video che sono usciti, quello di “Don Bosco” e quello di “Formiche”, raccontano la stessa storia, tant’è che nel titolo sono dichiaratamente suddivisi in Capitolo 1 e Capitolo 2. Ci racconti meglio l’idea che sta alla base di questa scelta?
In Don Bosco e Formiche abbiamo voluto raccontare una storia parallela. Non è didascalica nei confronti delle canzoni ma racconta anche questa, in un modo diverso, l’abbandono. Due personaggi crescono ed affrontano gli incontri che si fanno normalmente nel corso della vita. Succede poi che alcuni incontri ci segnano e ci indirizzano nelle nostre scelte e nelle nostre rinunce. Le maschere rappresentano per i due personaggi il loro punto di incontro, tant’è che sembrano non essere viste dalle altre persone. Le spade, o meglio le sciabole, portano tutto in un mondo parallelo, irrazionale, ma forse solo per la modalità di esecuzione. “Non è una scazzotata”. Devo ringraziare chi ha permesso tutto questo: le produzioni di The Blink Fish ed Eclettica Video, la regia di Paolo Lobbia ed Elia Tombacco, Marta Lorenzi direttrice di produzione, Elisa Fioritto D.O.P.. Loro, insieme a tutti i ragazzi della troupe, sono riusciti a creare qualcosa nella quale mi rivedo a pieno. Un valore aggiunto. Un bel vestito.
Alla produzione dell’album ha partecipato, insieme ad Andrea Pachetti, anche il tuo illustre “collega” Ciulla. Come è nata questa collaborazione?
Con Ciulla ci siamo letteralmente scontrati su un palco. Ci chiamarono insieme sbagliandosi e da quel momento ci siamo ascoltati. Io stavo iniziando a lavorare alle pre-produzioni del disco, e proprio grazie alla sintonia da subito presente abbiamo iniziato questa collaborazione. Abbiamo passato un anno insieme durante il quale ci siamo conosciuti direi abbastanza Af-fondo e sono molto felice di questo perché la musica ha questo potere, se ti lega ti lega stretto. Anche con Andrea (Pachetti) è successo questo. In lui ho trovato non solo quello per cui ero entrato in studio ma una sorta di confidente che è riuscito a tradurre, indirizzare e ripulire i miei pensieri. E poi la musica gli ha fatto dimenticare che sono un pisano.
In tempi di singoli e instant songs, Rugo esce con gli album. In futuro cambierai qualcosa da questo punto di vista o continui a pensare che il formato “lungo” rimanga quello migliore per ciò che hai da dire?
Ogni cosa ha la sua modalità di presentarsi. Purtroppo è vero non siamo più abituati ad ascoltare gli album, vogliamo tutto e subito e adesso non abbiamo nemmeno tempo di ascoltare i vocali su whatsapp, abbiamo sentito la necessità di velocizzarli a 2x (odio questa cosa). Affondo è un album che si è mostrato da solo come tale, non avevo alcuna idea che le canzoni scritte in questi anni avessero cosi tanto in comune. Quindi ho preferito seguire il concetto non pensando a quello che invece funziona e va di questi tempi. Al contempo non nego l’uscita futura di alcuni singoli o meglio canzoni solitarie.
Saluta i lettori di Perindiepoi con cinque cose che proprio ti fanno affondare.
Ciao a tutti o lettori! Le cose che mi fanno affondare (sta a voi capire quando assume significato di attacco o meno) sono: il mare pieno di gente, le mele a fine pasto, scrivere, il contatto con le persone e PERINDIEPOI.
Quanto c’fa parià il buon Biagio, che spero perdonerà il mio osceno tentativo di napoletanizzare la mia fredda “nordicità” – ognuno ha i suoi sogni nel cassetto, il mio è quello di nascere lontano dalla fredda e astiosa Milano, con un piede (se non due) tra Napoli e l’Equatore.
Dicevo, quanto ci fa divertireBiagio, cantautore partenopeo che qualche giorno fa è tornato alla ribalta con un nuovo singolo dopo l’esordio (che ci siamo colpevolmente persi) con “Geeno”: “celovuoi” è il nuovo concentrato di umorismo, ironia e finefinissimafinississima acidità scagliato contro chi nella vita non sa prendere una posizione netta su certe spinose tematiche (che il testo, ad ogni modo, chiarisce) trincerandosi dietro il leonismo da tastiera.
Insomma, la lettura del mondo offerta da Biagio è quella che passa attraverso le valvole del rock demenziale e si scalda con le sonorità d’oltremanica abilmente impiantate sul progetto da Stefanelli, uno che da queste parti è già passato più volte e che Perindiepoi apprezza da tempo.
Gli ingredienti c’erano tutti, quindi, per non lasciarci sfuggire l’occasione di fare due chiacchiere con Biagio, che si è prestato amabilmente al nostro simposio virtuale.
Ciao Biagio, a quanto pare non ami molto i social o perlomeno sembri un po’ scettico sull’utilizzo che talvolta se ne fa; fortunatamente però non siamo dovuti venire fino a Napoli per chiederti un po’ di cose su di te e sul tuo brano (benedetta/maledetta tecnologia, che accorcia/aumenta le distanze!). Anzitutto, come e dove “muore” Biagio Vicidomini e nasce Biagio, l’ironico e blasfemo cantante.
Biagio nasce dalla più classica delle delusioni amorose. Suonavo già il pianoforte, ho incominciato a suonare la chitarra e a scrivere canzoni depresse per l’amore appena perduto. Successivamente mi sono ripreso e ho approcciato ad un modo nuovo di scrivere basato su quello che realmente mi accade. La mia vita è molto movimentata e gli eventi di conseguenza ironici, da qui la vena ironica della mia scrittura.
Prima di arrivare al fulcro concettuale del pezzo, forse già un po’ spoilerato prima, sarebbe bello se ci raccontassi un po’ la tua musica tra influenze intuizioni e produzione (tra parentesi originale ed avvolgente)
La mia musica nasce piano/synth o chitarra e voce. Ascoltando tantissima musica ogni giorno ho infinite influenze che si riassumono nelle melodie create ad hoc dal buon Stefanelli, produttore amico e mentore.
“Celovuoi”, titolo ironico e scanzonato ma che a livello tematico solleva inevitabilmente il polverone del dibatto sull’utilizzo dei social network e sui conseguenti misunderstandig che si vengono molto spesso a creare a causa della lontananza fisica e talvolta emotiva: Dicci la tua, nel video – con il tuo modo scanzonato di fare – citi numerose piattaforme, e non senza una certa ironia dissacrante!
Partendo dal presupposto che sto per fare un discorso un po’ da boomer, ma rimpiango i tempi in cui ci si conosceva per strada e ci si avvicinava ad una ragazza incuriositi da uno sguardo o da un sorriso fugace. Aggiungere le persone sui social e scorrerle come le pietanze di un menù di un fast food mi perplime e non poco. Sono vecchio? Forse sì, ma preferisco un bel palo ben assestato dal vivo piuttosto che un visualizzato con la doppia spunta blu.
Visto che qui abbiamo i nostri agganci, siamo riusciti a vedere in anteprima il videoclip della tua canzone – ora disponibile su tutte le piattaforme – con una regia d’eccezione e un cast stellare (sognavamo da tempo di scrivere una cosa del genere!). Quello che ci interessa però è parlare un po’ della vena blasfema, se così si può definire, che lo caratterizza e come questo in un paese, in fissa totale con il politica correct, come l’Italia potrebbe essere percepito.
I miei testi sono palesemente dissacranti, quale miglior occasione per rappresentare in maniera spregiudicata e demitizzante il concetto se non provarci con una suora di bella presenza? Sono cresciuto in una famiglia cattolica praticante, ma non ho badato molto alla piega blasfema che ha inevitabilmente preso il video. Ho pensato per lo più ad agire per immagini forti per descrivere i miei testi ed il mio progetto. In tema ecclesiastico ti faccio però una confessione, mia madre si è rifiutata di vedere il video, per fortuna mi rivolgo ad un pubblico più giovane.
Biagio, si è detto fin troppo. Ora salutaci, e mandaci a quel paese nel modo più carino che hai a disposizione.
Grazie a tutti, è stato un piacere, tutto vostro, vi auguro una buona vita, fate buone cose!
Un piccolo sogno? Avere di fronte a sè una band, una di quelle che ci hanno accompagnato durante i nostri viaggi in autubus e passeggiate verso l’ennesima lezione che non avremmo seguito, una band che privatamente e a comando ci può deliziare con un brano suonato solo per noi. Lo hanno fatto i Diletta la scorsa domenica 19 settembre durante L’Isola che non c’è @ Villa Guardia (CO), qui infatti la band lombarda si è esibita sul palco come una qualsiasi band di provincia, e poi sono stati anche una sorta di lettore mp3 vivente: un banchetto, delle sedie e delle cuffie, una band a tua completa disposizione per un concerto privato solo per te, che lì davanti puoi indagare, incrociare sguardi e, ovviamente, fare richieste. Un ottimo e intimo modo di prepararci all’uscita del loro album di debutto dal titolo Sacro Disordine, in uscita proprio oggi. Finalmente è completamente svelato il mondo del duo lombardo, tra cantautorato ed indie pop: un disordine inevitabile e sacrosanto che è comune a tutti.
Speriamo per noi (ma non tanto per loro) che altre band copino quest’idea, perchè noi musicofili non vediamo l’ora di mettere da parte i soldi per poterci dedicare i brani delle nostre band underground preferite.
I Diletta sono un duo nato nel 2019 da un’idea di Jonathan Tupputi, voce e chitarra, e Andrea Rossini, tastiere e arrangiamenti. Da un primo approccio rock i due amici approdano a un sound più intimo e sperimentale avvalendosi prima della collaborazione di Desirée Bargna ai cori e al violoncello e successivamente di Simone Bernasconi al basso. La loro idea musicale trova compimento nel primo EP “Sacro Disordine” grazie al produttore Luca Urbani (ex Soerba, con all’attivo collaborazioni illustri fra cui Bluvertigo, Alice, Garbo e tanti altri), che dona ai Diletta quel tocco elettro-pop che stavano cercando. “Sacro disordine” concretizza il primo anno di attività passato tra prove e live nei locali del comasco, con 6 canzoni inedite, rigorosamente in italiano, a metà tra l’indie-pop elettronico e il cantautorato più intimo. La band, sostenuta da una campagna crowdfunding lanciata sulla piattaforma Ulule, ha ultimato i lavori nell’autunno del 2020 e ha pubblicato di recente i primi due singoli “Capita” e “Povera città” disponibili su tutte le principali piattaforme musicali.
I DILETTA SONO:
Jonathan Tupputi, aka Jonnyboy, chitarra e voce riccioluta.
Suona per diletto da quando alle medie lo zio lo avvicinò alla chitarra, a De Andrè, Bennato e Pink Floyd. Ama la pizza e i film d’animazione. Nella vita seria è educatore in una comunità per minori.
Andrea Rossini, aka Il Maestro, tastiere e percussioni.
In adolescenza batterista, scopre in seguito la magia di creare suoni con synth e supporti hi.tech. Abile compositore di paesaggi sonori e di hummus di ceci memorabili. Di professione videomaker.
“Lambrooklyn” è il nuovo singolo di Mico Argirò, e da poco ha pubblicato anche il nuovo video. Noi affascinati dalla sua musica e dal nuovo contenuto, non potevamo far altro che intervistarlo subito. Non perdetevi il nostro incontro, buona lettura!
Ciao Mico, benvenuto! Complimenti per la tua ultima canzone, “Lambrooklyn”, sei soddisfatto?
Abbastanza. Tanto a livello di diffusione e consensi e questa cosa mi onora, ma forse avrei desiderato più contatto umano, più confronto sui contenuti, più profondità. Oggi invece si galleggia sulla superficie, mi fa piacere che il pezzo stia surfando, ma preferirei immersioni nei fondali.
Quando hai scritto la canzone?
Tra ottobre e novembre del 2020, periodo di zone rosse nel quale evadevo il coprifuoco per il solo desiderio di farlo.
Quale credi sia la novità che porti nel panorama musicale?
Questa è una domanda complessa. Io credo che ultimamente nella mia musica ci siano tanti elementi di novità: la fusione tra musica acustica ed elettronica nella cornice della musica d’autore, tematiche molto contemporanee, ma non per forza di moda e nel pensiero dominante, un approccio minimale che mischia tante influenze, il fatto stesso che analizzi tutto ciò che mi capita o che vedo attraverso il filtro unico dei miei occhi e della mia sensibilità. Non sono cose nuovissime, non ho inventato delle ali per volare alla Leonardo, ma ho uno stile personale nel rapportarmi alla musica e al mondo, credo sia difficile trovare qualcosa di uguale a me su Spotify.
Non dico migliore, ma uguale.
Quando hai iniziato a fare musica?
Ho iniziato molto presto, da ragazzino, con la chitarra nella mia cameretta, da lì alle prime canzoni il passo è stato breve e da quelle ad oggi è stato insieme un’eternità e un battito di ciglia.
Dove ti immagini suonare i tuoi pezzi live?
Sto suonando spesso dal vivo, per fortuna, e lo sto facendo nei contesti più disparati e diversi: dai palchi grandi con lo spettacolo elettronico (insieme a Biagio Francia) fino ai localini, dalle situazioni in acustico alle presentazioni fino agli house concert. Non credo di avere un luogo ideale per suonare, non mi interessa tanto il luogo, quanto l’incontro con le persone, il collegamento attraverso il microfono della mia anima a quella di ogni singola persona sotto il palco.
Dopo la recente esperienza a Deejay On Stage, Giovanni Casadei in arte sonogiove pubblica oggi venerdì 1 ottobre per Formica Dischi il primo singolo del suo nuovo progetto musicale dal titolo Aquilone. Un pezzo indie-pop dalle sfumature lo-fi che vede la produzione di Alberto Melloni e che ci parla dell’immortale concetto d’amore.
sonogiove è Giovanni Casadei, classe ’95, di Rimini. Il progetto è nato nell’effettivo nel 2020. Giovanni ha già un progetto sotto un altro nome, all’attivo da anni che lo ha portato ad avere il proprio piccolo bagaglio di esperienza. Da un anno si cimenta invece in questo progetto totalmente in italiano, basato sull’uso della chitarra classica arpeggiata, mischiando indie, pop, e lo-fi. È seguito dal produttore di Riccione Alberto Melloni. A ottobre 2021 esce col suo primo singolo con Formica Dischi. Recentemente ha partecipato a Deejay On Stage (Radio Deejay), essendo uno dei 40 artisti selezionati che si è esibito a Riccione. sonogiove ha l’esigenza di parlare con le sue canzoni, di comunicare cio che pensa e che vive, in chiave pop agrodolce. Aquilone è il suo primo singolo e parla del concetto di amore presente in ogni persona, e anche se si prova a schivarlo o a sorpassarlo, una forza gravitazionale tira la persona verso questo concetto.
Il Cesena Calcio e la passione che ho da quando sono piccolo, poiché di metà famiglia cesenate, giocare a calcio anche con gli amici mi piace molto.
La mia sala prove in campagna costruita con gli amici nel 2016, luogo di tanti periodi, persone e abitudini diverse della mia vita. In questo posto ho scritto e registrato diverse cose.
La chitarra classica nera che ho a casa, distrutta, rotta in due pezzi più volte e poi ricucita, avrà 40 anni.
Il kebab a fine serata, ho anche scritto una canzone sul Kebab!
Il mare d’estate, quelle giornate da cazzeggio con amici al mare, dove non pensi a niente.
Inizio con una piccola provocazione. Ma se il disco del 2021 fosse in realtà un piccolo album semi-sconosciuto di una band di quarantenni? Cioè, non è che forse stiamo cercando i suoni migliori e il sangue fresco di post liceali e nei giovanissimi che passano inevitabilmente dai talent, quando magari sarebbero da cercare nell’ultima fatica di chi nella musica ha saputo affondare, di chi si cosparge di suoni e chitarre come fosse fango e ne riemerge sempre più forte? Gli Amore Psiche sembrano farci respirare tutti quei dischi consumati dai nostri genitori, quelli che poi ci appassionavano e poi ascoltavamo di nascosti, sembrano riportarci ai primi concerti delle occupazioni e di quell’età dove tutto sembrava magnifico: qualsiasi ragazzo che sapeva suonare la chitarra, qualsiasi band ci trovassimo davanti.
Scoprire è il titolo del primo album degli Amore Psiche, e sempre Scoprire è il disco delle prime volte, proprio perchè in grado di descrivere le emozioni, come se le provassimo per la prima volta, riportandoci ai banchi di scuola, alle sorprese, ai momenti in cui si scopriva tutto. Come quella prima volta che mi sono innamorata, che non era la cotta per Kurt Cobain, ma per una persona reale, dagli sguardi reali, che però mi avrà rivolto una decina di frasi in tutta la sua vita. Ero una sorta di robot che sente per la prima volta qualcosa, come la protagonista di Dolce Illusione, un calore immenso che fa anche molto male. E fa anche molto male sapere che forse gli Amore Psiche ce li ascolteremo in pochi, e in pochi vivranno quell’invito a ritrovarsi adolescenti, a buttarsi a suonare il sax, a provare un lavoro piuttosto che un altro, a studiare medicina oppure cinema, in pochi torneranno in un momento in cui tutto è possibile.
Ascoltare questo disco, complice l’ipnotica voce di Daniela, mi ha riportato quindi proprio lì, in quel folle momento dove sfogliavo Rockerilla durante l’ora di latino, segnandomi una marea di titoli di dischi e nomi di band di cui non sapevo assolutamente nulla, però mi piaceva come suonava un nome, o un aggettivo che aveva usato quel qualcuno per recensirlo. Poi mi fiondavo nel meandri di internet alla ricerca del modo migliore e illegale per ottenere tutti i dischi che mi ero prefissata di ascoltare. Ogni volta una scoperta, un’ondata di suoni che mi penetravano sfondandomi lo sterno, e non c’era bello o brutto, solo il nuovo. Scoprire è questa cosa qui, e sarò grata per sempre agli Amore Psiche per avermelo ricordato.
Un folk-rock che si arricchisce di synth, che sa di nuovo come quando scopri uno scatolone di vecchi Urania nella vecchia casa dei tuoi, un segreto custodito bene e mai rivelato, qualcosa di antico e primordiale che risale finalmente a galla. Non abbiate paura di cercare anche voi i vostri scatoloni sotto al letto.
Non è facile essere cantautori indie oggi. Da un po’ di tempo, dopo la sbornia di Calcutta ed epigoni, l’attenzione del pubblico si è un po’ spostata altrove. Eppure, per fortuna, la tradizione cantautorale del nostro Paese continua a farsi sentire e a rinnovarsi con nuovi nomi molto interessanti. Davide Diva è uno di questi. Se non l’avete ancora fatto, vi invitiamo a scoprire il suo EP “Piccolo album colorato”, un autentico gioiellino.
Ciao Davide, partiamo dal tuo EP “Piccolo album colorato” che ha un titolo curioso reso ancora più interessante dall’artwork che lo accompagna. Ce lo vuoi raccontare?
In realtà il pensiero dietro al lavoro è molto semplice e fanciullesco. Nelle canzoni ci sono molti riferimenti diretti ai colori o a immagini vivide. Quando ho dovuto pensare al nome sotto cui raccogliere questi cinque pezzi mi sono subito venuti in mente i quaderni da colorare dei bambini e quindi al piccolo album colorato. Da qui Veronica Moglia è stata bravissima a pensare a un prodotto e a un impatto grafico che rimandassero a quei ricordi infantili.
In Italia, negli ultimi anni, siete in tanti a scrivere “canzoni indie”. Secondo te quanto è conseguenza di una moda di ormai “calcuttiana memoria” e quanto invece è legato al fatto che noi italiani siamo indissolubilmente legati alla canzone d’autore?
Bella domanda. Da un certo punto di vista spero che nessuno nello scrivere una canzone pensi di voler scrivere a priori con una certa attitudine (indie ad esempio) ma semplicemente ci sia volontà di esprimersi liberamente. In questa direzione Calcutta, ma come anche Contessa o Bugo molto prima, hanno dato esempi su come la canzone d’autore possa evolversi da un punto di vista linguistico e sonoro. Sono d’accordo però sul fatto che ci sia da chiedersi quanto di ciò che è venuto dopo sia sincero o artificioso. Parlando della musica d’autore in Italia non so se si possa fare un discorso generico ma, per quanto mi riguarda, sono cresciuto ascoltando esclusivamente De Andrè, Guccini e De Gregori fino ai 12 anni. Poi, fortunatamente, ho ampliato un po’ i miei orizzonti musicali.
In “Einstein” canti: “Ma se sono con te parlo male di tutti, non si salva nessuno”. Non ti chiediamo di fare nomi (se li vuoi fare ovviamente siamo contenti), ma ci dici quali sono le cose che proprio non salvi dell’indie italiano?
Una cosa che mal tollero è la sovraesposizione e la spettacolarizzazione del normale. Al giorno d’oggi sembra di dover dimostrare sempre di fare qualcosa (che sia bello o brutto poco importa). Credo che questa modalità di vivere tolga molto valore al quotidiano e sia presente non solo tra gli artisti, ma a nella società in generale.
Hai paura degli squali (Einstein), hai paura degli addii (Miami). Dicci altre tre paure che descrivono bene chi sei.
Ho paura che il tempo sfugga dalle mani; ho paura che il digitale faccia disimparare il fisico; ho paura della coerenza o, per dirla meglio, di non riuscire ad adattare le idee al nuovo.
A proposito di nuovo, cosa c’è nel futuro di Davide Diva?
Ho scritto, e sto scrivendo, un sacco di canzoni. Dopo quest’estate voglio tornare di sicuro in studio a registrare, nel frattempo suonerò in giro.
Saluta i lettori di Perindiepoi consigliando cinque piccole canzoni colorate.
È finalmente uscito “Brilla”, il nuovo disco dei Les Enfants. Un album maturo, intelligente, che dice tutto quello che deve dire senza concedersi (e concederci) facili scorciatoie. Un album pieno di notte e luci, scene intime e confessioni all’alba. Un album che suona come una serata con un amico di vecchia data. Di quelli che sai che non tradiscono. Ecco perché siamo così felici di averli incontrati!
Ciao Les Enfants, lo scorso giugno avete sorpreso tutti mettendo in vendita il disco completo su Bandcamp, in largo anticipo rispetto all’uscita sulle varie piattaforme streaming. Vi va di parlare di questa vostra scelta?
(Marco) Abbiamo voluto dare la possibilità ai nostri fan più attivi di ascoltare in anteprima il disco e sostenerci concretamente a livello economico: le piattaforme di streaming non garantiscono un guadagno per noi artisti, purtroppo! Eppure le spese per fare un disco, almeno nel nostro caso, ovvero di una band che vuole registrare tutti gli strumenti, in studio, sono molto alte. Con un piccolo contributo (il costo di una pizza) abbiamo dato la possibilità di supportarci a chi ci vuole bene. D’altronde la musica ci dà tutto: energia, emozione, forza, compagnia. E’ sbagliato pagare poco! Noi pensiamo sia necessario un cambio nella cultura dell’ascolto e della fruizione musicale.
L’ultimo anno e mezzo, lo sappiamo, è stato un duro colpo per il mondo musicale. Prima della pandemia lo streaming si completava con l’esperienza dell’ascolto live. Dopo tutti questi mesi di assoluto protagonismo dello streaming, non è che ci siamo assuefatti? Al di là degli hashtag, abbiamo ancora voglia di andare ai concerti? E al netto delle problematiche pratiche, secondo voi, il mondo live uscirà da tutto questo con le ossa irrimediabilmente rotte oppure ha solo bisogno di un po’ di tempo per rimettersi in carreggiata?
(Marco) Mi sembra che lo streaming sia rapidamente sparito e molte delle proposte che erano state fatte non siano andate benissimo. Il bello della musica è soprattutto il live, che negli ultimi anni stava crescendo tantissimo in Italia. Basta pensare ai vari sold out degli artisti del mondo “Indie”, fino a cinque anni fa era qualcosa di impensabile, negli ultimi anni c’è stata una vera impennata di partecipazione e penso che questa necessità ci sia ancora nel pubblico Italiano.
Quando esce un vostro singolo o un vostro disco lo riascoltate oppure lo lasciate andare e non ci pensate più?
(Marco) Noi abbiamo tempi molto lunghi di produzione e registrazione, buttiamo tanto materiale che non ci piace e fino a che non siamo contenti al 100% non lo pubblichiamo. Quindi siamo soddisfatti delle nostre opere, quando escono siamo contenti e non ci pensiamo più. Ogni tanto mi capita di ri-ascoltarlo ma tanto lo sappiamo già a memoria! Ci concentriamo più sulle prossime creazioni.
“Brilla” è un titolo bellissimo, perché da un lato fa pensare a qualcosa che risplende, qualcosa di piacevole e consolatorio, dall’altro rimanda all’energia incontenibile di una bomba che esplode. Quale di questi due aspetti è predominante nel vostro disco?
(Francesco) Abbiamo scelto Brilla in un istante e poi non abbiamo avuto dubbi. Più che a fare brillare le bombe come artificieri ci siamo ispirati allo sbrilluccichio lontano che esprimono le stelle. Un barlume malinconico ma ristoratore come un abbraccio, splendido ma non accecante, una luce fioca, opaca. Quindi direi che siamo d’accordo sulla 1.
Il vostro primo EP è uscito nel 2012, quasi dieci anni fa. Qual è stato il momento migliore e quale il più difficile della vostra esperienza?
(Francesco) Di esperienze belle ne abbiamo vissute molte, così al volo mi viene in mente l’ultimo concerto al Magnolia di Milano per il Linoleum Late Night Show. Tornare su un palco è stato super. Abbiamo chiesto a due amici e ottimi musicisti di suonare con noi (Martin del duo “Clio e Maurice”, e Luca de “Il Cairo”). In tanti è più bello: ci siamo divertiti aggiungendo al nostro nuovo live un violino e altri strumenti come gli Arcade Fire. Il periodo più difficile X Factor, senza ombra di dubbio. Ci siamo sentiti come pesci fuor d’acqua per gran parte del tempo. Cover, trucco e parrucco, videocamere e cose stressanti a caso che non ci appartengono. Davvero, non è per tutti, e sicuramente non per me. A posteriori è stata un’esperienza davvero ricca. In senso metaforico, non economico, come potete immaginare.
Salutate i lettori di Perindiepoi con cinque cose brillanti per illuminare la loro estate.
Se non basta aver vinto gli europei, aggiungiamo i nostri quattro singoli che non sono ancora usciti su Spotify. Li trovate sul nostro Bandcamp e c’è tutta la nostra passione dentro! Buona estate!